mercoledì 17 novembre 2010

Preghiera di San Carlo Borromeo al Santo Crocifisso



San Carlo Borromeo
patrono di Pizzini


Ciò che mi attira verso di Voi, Signore,
siete Voi!
Voi solo, inchiodato alla Croce,
con il corpo straziato tra agonie di morte.
E il vostro amore
si è talmente impadronito del mio cuore

che, quand'anche non ci fosse il Paradiso,
io vi amerei lo stesso.
Nulla avete da darmi
per provocare il mio amore
perché quand'anche non sperassi ciò che spero,
pure vi amerei come vi amo.
Amen.

martedì 16 novembre 2010

San Carlo Borromeo in Memoriale ai milanesi







“Non hai ancora capito, Milano mia, che fu precisamente per mezzo del Santo Chiodo della Croce di Gesù Cristo, che devotamente conservi e adori, che fosti ultimamente liberata dalla peste? Chi può contare quanti benefici ricevono e quante grazie continuamente ottengo(le popolazioni) per l’intercessione dei santi dei quali venerano le reliquie? … In tanti modi Gesù Cristo ha glorificato i suoi santi; … ha onorato come parti del suo corpo le reliquie, compiendo miracoli ed elargendo benefici per merito loro”.

lunedì 15 novembre 2010

Omelia per la festa di San Carlo Borromeo







Roma
San Carlo al Corso, 4/11/2001

San Carlo Borromeo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo.

La celebrazione liturgica della festa di san Carlo cade quest'anno ad una settimana dalla conclusione del Sinodo dei Vescovi. Mi viene allora spontanea una domanda: questo Sinodo, che ha avuto come argomento "Il Vescovo Servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo", ha un qualche rapporto con la figura spirituale e pastorale di san Carlo Borromeo, o meglio questo grande vescovo milanese, che è vissuto circa quattro secoli e mezzo fa, ha qualcosa da offrire al Sinodo, alle sue originarie intenzioni e ai suoi sviluppi futuri per il bene della Chiesa?

San Carlo e il Sinodo dei Vescovi 2001
Incominciamo con una notizia di cronaca. Non è mancato nell'aula sinodale un intervento che ha ricordato proprio san Carlo Borromeo. L'intervento voleva sottolineare l'importanza che nella vita della Chiesa d'oggi, e in particolare per il ministero dei Vescovi, ha il ricordo dei Vescovi del passato, più precisamente dei Vescovi santi: ricordo che significa impegno a custodirne l'eredità spirituale e pastorale, a tenerla sempre viva, anzi a farla fruttificare in rapporto alle nuove situazioni sociali e culturali nelle quali la Chiesa si trova a vivere e ad operare.

Ma al di là di questo intervento, un punto che è ritornato insistito e ripetuto nel Sinodo è stato quello della spiritualità, e dunque della santità del Vescovo. Come la storia documenta, il rinnovamento della Chiesa secondo il Vangelo è sempre coinciso con la santità dei pastori (e insieme dei fedeli). E san Carlo, con altre grandi figure di Vescovi, lo testimonia per il secolo XVI. Gli studiosi concordano nel presentare san Carlo come l'incarnazione più splendida dell'ideale del Vescovo tracciato dal Concilio di Trento, in continuità con l'immagine evangelica del buon Pastore, immagine che stasera ci è stata riproposta con le parole stesse di Gesù riferite da Giovanni nel suo Vangelo.

San Carlo stesso così dice dei Vescovi, nel discorso di apertura del I Concilio provinciale di Milano il 15 ottobre 1565: "Essi vigilavano sul loro greggeNutrivano con assiduità le pecore loro affidate, con il triplice nutrimento della salvezza, la Parola cioè, l'esempio e i Sacramenti. Sempre nel ricordo del pastore supremo, Gesù Cristo, e imitatori di Lui che aveva dato la sua vita e il suo sangue per tutto il suo gregge, essi sopportavano qualsiasi fatica per il bene delle loro pecorelleCome il pastore del Vangelo, non esitavano a dare la loro vita per il gregge" (Acta Ecclesiae Mediolanensis, vol. II, coll. 161-162). E con riferimento personale al Borromeo così diceva Giovanni Paolo II: "San Carlo Borromeo fu grande pastore della Chiesa, prima di tutto perché egli stesso seguì Cristo-Buon pastore. Lo seguì con costanza, ascoltando le sue parole e attuandole in modo eroico. Il Vangelo divenne per lui la vera parola di vita, plasmandone i pensieri e il cuore, le decisioni e il comportamento (L'Osservatore Romano, 5-6 novembre 1984).

Ma, facendo ora riferimento al recente Sinodo dei Vescovi, possiamo dire che san Carlo ha vissuto in modo originale e determinante per i suoi tempi e per quelli successivi questo compito, e insieme questa sfida, che la Chiesa ripropone ai suoi Pastori all'alba del terzo millennio: essere cioè Servitori del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo.

Servitore del Vangelo di Gesù Cristo
San Carlo ci offre un esempio singolare nel ministero della Parola di Dio. Il suo impegno può essere sintetizzato con queste parole che Giovanni Paolo II rivolse anni fa ai pellegrini milanesi: "La missione è nel suo fondamentale contenuto e nella sua più forte esigenza annuncio del Vangelo di Gesù Cristo: evangelizzazione, dunque, e catechesi che riprende in modo organico, sistematico, quotidiano il Vangelo. Proprio sulla catechesi san Carlo ha ancora tanto da dire: con il suo esempio personale, così dedito alla predicazione della parola di Dio in ogni circostanza; con le sue accorate raccomandazioni rivolte ai sacerdoti per il generoso compimento del ministerium Verbi; con la sua legislazione diocesana e provinciale così precisa, forte e originale per una catechesi che tutto il popolo di domenica era chiamato a realizzare, nella forma di una vera e propria scuola, la scuola della dottrina cristiana" (Discorso del 4 novembre 1983).




Uno studioso della pastorale di san Carlo documenta la passione instancabile con cui si è dedicato all'annuncio della Parola. E ciò risulta particolarmente significativo se lo si confronta con il costume dei tempi: "Durante tutto il suo episcopato, san Carlo Borromeo fu un oratore infaticabile. Generalmente predicava tutte le domeniche almeno una volta, talvolta due. Gli capitava di tenere in uno stesso giorno tre o quattro discorsi diversi. Si aggiungano a questi moltissimi discorsi di circostanza. Salvo impedimenti, egli si preparava sempre con gran cura; prendeva un foglio di carta e vi tracciava il canovaccio del discorso sotto forma di un albero con molti rami e rametti. Metodo ingegnoso che aiutava la sua memoria visiva" (R. MOLS, St. Charles Borromee, pionnier de la pastorale moderne, in "Nouvelle Revue Thèologique" 1957, trad. ital. in "Ambrosius" 1961, p. (35)).

Sappiamo che il 3 maggio 1577, per l'esposizione in Duomo del Santo Chiodo, il Borromeo ha predicato per ben 46 volte: "Dirò solo questo - così in una lettera del 14 maggio di quell'anno - che avendo Monsignor Ill.mo con l'occasione della solennità della esaltatione della Croce Santa et de processioni con la reliquia del Santo Chiodo introdutto la devotione delle quarant'hore in Domo la Sua Signoria Ill.ma in queste quarant'hore fatto quarantasei prediche a ciascuna parrochia, che d'hora in hora veniva all'oratione ed questo senza mangiare, bere, dormire" (Biblioteca Ambrosiana, S. Q., II, fol. 182).

Predicatore instancabile del Vangelo, l'Arcivescovo nei Concili provinciali e nei Sinodi diocesani esige con grande fermezza che i parroci lo seguano nell'esempio: è loro grave dovere spiegare, tutte le domeniche e le feste di precetto, il Vangelo e la Dottrina Cristiana. Tre anni dopo il suo ingresso in diocesi, notando che si verificano ancora delle negligenze al riguardo, esclama: "E' colpa gravissima! Questo officio (la predicazione della parola di Dio), che è vostro, che è proprio, che è primo, da voi è tralasciato o trascurato! Pastori delle anime siete: e la parola di Dio è il loro pascolo Il popolo ha fame: la parola di Dio è il soavissimo pane della vita, con il quale lo ricreate; giace infatti nelle tenebre: la parola di Dio è lampada ai passi e luce al cammino, con la quale dirigete i suoi passi sulla via della salvezza; i nemici lo incalzano: la parola del Signore è viva spada dello spirito, efficace e più tagliente d'ogni spada a doppio taglio, con la quale respingete gli avversari della salvezza e della verità; languisce ed è afflitto: è medicina del tutto salubre la parola di Dio: con questa guarite tutte le malattie Che cosa ha più valore? La parola di Dio che vivifica lo spirito manifesta la vera vita, luce, pace, gioia, giustizia, verità, e ultimamente lo stesso Cristo" (Omelia del 4 agosto 1568 al II Sinodo diocesano, Roma 1963, pp. 81-82).

Grande contemplatore del Crocifisso
Importantissima è quest'ultima parola: il Vangelo, di cui san Carlo è servitore e annunciatore, non è infatti un semplice libro scritto, è qualcosa di vivo e di vitale, è la persona stessa di Gesù, la Parola di Dio fatta carne. In tal modo il servizio al Vangelo diviene per san Carlo il segno e il frutto del suo appassionato amore per Cristo, in particolare per Cristo Crocifisso. In continuità con l'apostolo Paolo - di cui può ripetere le parole "Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso" (1 Corinzi 2, 2) - il Borromeo pone al centro del suo annuncio la Croce, convinto com'è che questa è la cattedra scelta dal Signore, è il libro aperto a tutti: dalla Croce, infatti, discendono i tesori della sapienza e della scienza di Dio (Colossesi 2, 3) e l'uomo da essa può acquistare la conoscenza di cui ha assoluto bisogno per la sua vita: la conoscenza di Dio e la conoscenza di se stesso. Nell'omelia quaresimale del 2 marzo 1584 san Carlo dice: "Due sono le cose specialmente necessarie a sapersi dall'uomo, e queste implorava sant'Agostino da Dio con quelle parole: Domine, noverim te, noverim me (Signore, possa io conoscere te, e conoscere me). All'una e all'altra di queste conoscenze massimamente conduce la frequente meditazione della Passione di Cristo" (SASSI, Sancti Caroli Borromaei Homiliae, Milano, 1747-1748, vol. III, 428).

Facciamo di nuovo attenzione all'ultima parola di san Carlo: egli ricorda "la frequente meditazione della Passione di Cristo". E così il passaggio è dall'annuncio del Vangelo di Gesù alla contemplazione di Gesù. Tocchiamo qui il punto più significativo, direi il "segreto" di tutta la spiritualità del Borromeo, e quindi la radice e il vertice del suo servizio al Vangelo. Egli è stato un grande contemplatore del Crocifisso, con una contemplazione che era raggiunta e sostanziata da ripetute preghiere, da lunghe meditazioni, da mortificazioni austere, da sospiri e lacrime, da desiderio intensissimo di partecipare intimamente alle sofferenze della Croce. Da qui scaturiscono le sue prediche e queste, a loro volta, sfociano in ardentissime preghiere, quasi bagliori di un cuore infuocato d'amore per il Crocifisso.

Così in un'omelia quaresimale del 1584 esclama: "O dolcissimo Gesù! Tu sei Sole più grande del nostro sole, poiché puoi illuminare e riscaldare non una sola parte del mondo, ma anzi, se ci fossero infiniti mondi, su tutti splenderebbe il tuo fulgore infinito. E' giusto perciò che tu trasferisca la tua luce alle remoti genti dell'altra parte della terra. Ma, o Signore, 'rimani' anche 'con noi', poiché (lo dico piangendo) per noi 'si fa sera'. Rimani con noi con la tua grazia, col tuo splendore, col tuo calore. Rimani nei nostri cuori, nella nostra volontà e nella intelligenza, nel più profondo della nostra memoria. Fa' che ci ricordiamo sempre di te, che siamo sempre memori della tua crudelissima Passione, che sempre, con gli occhi dell'anima e del corpo, ti contempliamo crocifisso" (Omelia 102: SASSI, op. cit., vol. III, p. 540).

Viene spontaneo pensare alla richiesta che il Papa rivolge a tutti noi nella sua lettera dopo il Giubileo Novo millennio ineunte, là dove scrive: "Se volessimo ricondurre al nucleo essenziale la grande eredità che essa (esperienza giubilare) ci consegna, non esisterei ad individuarlo nella contemplazione del volto di Cristo: lui considerato nei suoi lineamenti storici e nel suo mistero, accolto nella sua molteplice presenza nella Chiesa e nel mondo, confessato cone senso della storia e luce del nostro cammino" (n. 15). Il Papa ci chiede non solo di "parlare" di Cristo, ma di farlo "vedere"(cfr. n. 16). Ma come farlo vedere agli altri, se gli occhi del nostro cuore di credenti non sono fissi sul volto del Signore?




La croce gloriosa di Cristo speranza del mondo
Il Vescovo è servitore del Vangelo di Gesù Cristo - dice il Sinodo - propter spem mundi, per la speranza del mondo. Sì, perché il Vangelo per sua intima natura è la "buona e lieta notizia", è la rivelazione di Dio Padre che ama tutti con amore di misericordia, che manda il Figlio per la nostra salvezza, ossia per donarci la vita nuova della grazia e per liberarci dai mali, da quello radicale del peccato a quei tanti mali del mondo che sono legati all'odio, alla violenza, all'ingiustizia, alla violazione dei diritti sacrosanti della persona umana.

In realtà, l'umanità spesso, e in alcuni tornanti della sua storia in forme angoscianti e sconvolgenti, si trova provata e lacerata dal male. Quante ferite e piaghe nella nostra società e nel mondo!

Il Vangelo, proprio con l'annuncio di Cristo crocifisso e risorto, è sorgente di una nuova e incrollabile speranza per l'umanità. Come leggiamo nel Messaggio finale del Sinodo dei Vescovi: "Mentre da un punto di vista umano la potenza del male sembra spesso avere il sopravvento, agli occhi della fede la tenera misericordia di Dio prevale infinitamenteNon possiamo quindi lasciarci intimidire dalle diverse forme di negazione del Dio vivente che cercano, più o meno scopertamente, di minare la speranza cristiana a farne una parodia o a deriderla. Lo confessiamo nella gioia dello Spirito: 'Cristo è veramente risorto!'. Nella sua umanità glorificata, ha aperto l'orizzonte della vita eterna a tutti gli uomini che si convertono" (nn. 6. 8).

San Carlo ci è di esempio e di stimolo: la contemplazione del volto sofferente e insanguinato di Cristo in croce è stata per lui la forza interiore che l'ha reso "padre" dei poveri e dei sofferenti. La sua carità verso i più bisognosi, verso gli "ultimi" del suo tempo è consistita nel dare loro le sue cose, nel dare se stesso, nell'accendere nei cuori dei cristiani impegni di condivisione e di solidarietà, nell'organizzare associazioni e fondare istituti e opere. Ma tutto e sempre a partire dalla contemplazione del Crocifisso.

Non è forse, anche questo, un richiamo importante e stimolante per noi? Se i nostri occhi non sanno vedere nei poveri, nei malati, nei sofferenti, nei bisognosi i lineamenti di Cristo, e quindi non spalancano il nostro cuore alla compassione e all'aiuto, non è forse perché questi nostri occhi hanno paura di fissare il volto di Gesù Crocifisso?

Anche ciascuno di noi dev'essere, nell'ambiente dove vive e opera, annunciatore e testimone di speranza per il mondo. Ora sappiamo la strada da percorrere, l'unica strada veramente efficace: quella della contemplazione di Gesù in croce.

Concludiamo con una parola luminosa e forte di san Carlo che ci chiede coerenza operosa tra il nostro sguardo contemplativo del Crocifisso e il nostro servizio d'amore verso il prossimo: "Questa Croce - dice -, questo Cristo, da qualunque parte noi lo guardiamo, è l'esemplare perfettissimo della nostra vita e di tutte le nostre azioni.
Quelle mani aperte, con le quali chiama e invita a penitenza tutti gli uomini, con le quali si mostra pronto ad abbracciare chiunque vi si accosta, non ci insegnano forse che anche le nostre mani devono essere facili a dare l'elemosina e liberali nell'aiutare quelli che hanno bisogno del nostro aiuto? (SASSI, op. cit., vol. IV, p. 45).

Ecco, carissimi: riviviamo la carità di Cristo crocifisso per rendere credibile il Vangelo, così che sia accolto dagli uomini del nostro tempo come fonte inesauribile di speranza.

 
+ Dionigi Card. Tettamanzi

domenica 14 novembre 2010

Preghiera a San Carlo Borromeo

con gli Oblati dei Ss. Ambrogio e Carlo






Questi è l’amico dei suoi fratelli;
il Signore gli ha dato un cuore grande
come la vastità smisurata del mare.
Custodisci nel tuo popolo, o Dio,
lo spirito che animò S. Carlo, nostro vescovo,
perché questa tua Chiesa
si rinnovi incessantemente
e, sempre più conforme al modello evangelico,
manifesti al mondo
il vero volto di Cristo Signore,
che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.




sabato 13 novembre 2010

La canonizzazione






La figura di Carlo Borromeo, subito all’indomani della sua morte, venne in qualche modo idealizzata: per l’opera che aveva fatto e per la vita che aveva condotto egli divenne il vescovo ideale, il modello, il paradigma di pastore in cura d’anime. Per il popolo di Milano egli era già considerato santo, tanto è vero che il suo sepolcro in Duomo divenne subito meta di pellegrinaggi e molti erano i fedeli che dicevano di aver ricevuto grazie e miracoli per sua intercessione. Inoltre cominciarono subito a circolare anche le prime biografie su di lui, con lo scopo di divulgare la sua opera di pastore e le sue virtù di cristiano esemplare. Il 26 febbraio 1601 iniziò formalmente il processo di canonizzazione, voluto e promosso dagli oblati, la congregazione di preti voluta dal Borromeo come efficace strumento per la sua opera di riforma della Chiesa milanese. Processo che si concluse in tempi relativamente brevi, il 1° novembre 1610, quando a Roma papa Paolo V proclamò ufficialmente santo il vescovo Carlo Borromeo. Nella bolla di canonizzazione il papa lo definì sinteticamente «forma gregis, forma cleri», cioè modello e norma vivente per il popolo cristiano e per il clero.
(di mons. Marco Navoni)



venerdì 12 novembre 2010

Ascesi e morte di san Carlo





Secondo la spiritualità dell’epoca, la peste del 1576 fu percepita da san Carlo come un appello di Dio al senso del peccato, alla conversione, alla penitenza e alla espiazione. Tutto ciò lo portò ad accentuare nella sua vita le pratiche penitenziali e ascetiche: preghiere prolungate, digiuni, veglie notturne, sopportazione delle sofferenze, indifferenza per la propria salute fisica. Ebbe sempre particolare devozione per il Crocifisso, ma negli ultimi anni di vita, attraverso un’ascesi personale molto rigorosa, intensificò la contemplazione della passione del Signore, della valore rendentivo della Croce, del mistero della sua sepoltura, come se volesse identificarsi con Cristo crocifisso. Alla fine di ottobre del 1584, dopo aver visitato per la quarta volta a Torino la Santa Sindone, si ritirò al Sacro Monte di Varallo per gli esercizi spirituali: il suo fisico era già debilitato dalle veglie e dai digiuni e il luogo era umido e malsano. Colto da febbre, venne trasportato a Milano, dove morì la sera del 3 novembre, a soli 46 anni di età. Il papa di allora, Gregorio XIII, informato della morte del Borromeo, esclamò: «Un gran lume si è spento in Israele».
(di mons. Marco Navoni)

giovedì 11 novembre 2010

L'attività caritativa







Alessandro Manzoni volle immortalare la figura di Carlo Borromeo come santo della carità, soprattutto in riferimento alla peste che devastò Milano nel 1576 e che vide l’arcivescovo disfarsi per il suo popolo stremato dall’epidemia. In tale circostanza la carità del vescovo si dispiegò in maniera così generosa, che a quel periodo di sciagura si sovrappose la sua figura paterna: da allora «fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità!». Per soccorrere gli appestati fece predisporre un ricovero e diede disposizione di asportare dal suo palazzo tutto quanto occorresse: tappezzerie, tende, coperte, tovaglie, addobbi, qualunque tessuto, fino ad arrivare alle sue vesti personali, così che si potessero confezionare vestiti da distribuire ai bisognosi. Si potrebbe dire che, non avendo potuto ospitare quella massa di gente per ovvi motivi di disponibilità di spazio e di cautela in tempi di contagio, non avendo potuto portare loro a casa sua, volle portare la sua casa a loro: e infatti il tetto che li riparava, le mura che li accoglievano, i vestiti che li ricoprivano, gli utensili che usavano, era tutto del vescovo, il vero padre dei poveri.
(di mons. Marco Navoni)

mercoledì 10 novembre 2010

La riforma del clero






San Carlo era convinto che per attuare una fruttuosa riforma nella vita diocesana fosse necessario cominciare dalla riforma del clero. E il primo punto fu la sua formazione umana, spirituale e culturale. Prima del concilio di Trento la preparazione del clero era molto approssimativa e molti preti vivevano nell’ignoranza e talvolta nell’immoralità. Il primo rimedio fu quello di istituire una rete di seminari, dove gli aspiranti al sacerdozio avessero la possibilità di una preparazione seria e rigorosa, sia dal punto di vista spirituale, sia dal punto di vista culturale, con un programma di vita ordinato e un piano di studi letterario e teologico ben preciso. Ed è sempre all’interno del suo progetto di riforma del clero che dobbiamo inserire anche la fondazione della congregazione degli oblati: erano (e sono) sacerdoti diocesani che si legavano direttamente all’arcivescovo con un voto di obbedienza e la disponibilità piena ad assumere incarichi di emergenza o mansioni particolarmente delicate, rinunciando a ogni forma di privilegio o di esenzione. Concezione precorritrice dell’attuale idea di dedicazione del prete alla Chiesa locale nel segno della diocesanità.
(di mons. Marco Navoni)

martedì 9 novembre 2010

I Sinodi e i Concili




Dopo il momento della diagnosi (la conoscenza dei problemi), san Carlo mise in atto il momento della terapia: individuare le misure giuste per correggere le situazioni che andavano cambiate. Ciò avvenne attraverso un’attività legislativa saggia e minuziosa: l’arcivescovo celebrò undici sinodi diocesani, riunendo il clero per discutere e trovare le applicazioni concrete di riforma, e sei concili provinciali, riunendo i vescovi delle diocesi che gravitavano su quella di Milano, così da instituire una strategia pastorale comune. Ne nacque un’imponente legislazione, nella quale tutto era previsto, nulla veniva lasciato all’arbitrio: vita del clero, organizzazione delle parrocchie, norme per l’amministrazione dei sacramenti e per la costruzione degli edifici sacri, perfino indicazioni igienico-sanitarie. Ai sinodi e ai concili si aggiunsero le lettere pastorali e le istruzioni su problemi contingenti. Se nella Chiesa rinascimentale il problema era l’anarchia, dopo il concilio di Trento e dopo l’interpretazione che ne diede san Carlo, tale problema venne risolto con una legislazione accuratissima, per noi oggi forse soffocante. Ma a quei tempi era la terapia corretta.

(di mons. Marco Navoni)

lunedì 8 novembre 2010

Le visite pastorali






Per fare una seria riforma della diocesi, era necessario innanzitutto fare una seria diagnosi della situazione, cioè rendersi conto della vita dei fedeli, dei problemi delle parrocchie, della condizione del clero, per individuare le situazioni patologiche bisognose di cura o di cambiamento. Ebbene, san Carlo volle di persona conoscere il proprio gregge attraverso la visita pastorale, che compì per almeno due volte, recandosi fin nei più sperduti paesi dell’immensa diocesi di Milano. Ancora oggi ogni antica parrocchia ambrosiana conserva le tracce del passaggio di san Carlo: i luoghi dove fu ospitato, le chiese dove predicò, disse messa e amministrò i sacramenti, le cappelle da lui erette, persino le fontane cui si dissetò e che vengono indicate spesso come le “fontane di san Carlo”. Sono vere e proprie reliquie della sua attività pastorale e della sua presenza. Nell’ideale di san Carlo la visita pastorale si identifica quasi con la vita stessa del vescovo; anzi è il catalizzatore che rivela la qualità della sua stessa morte. Avendo saputo un giorno che il vescovo di Novara era morto per le fatiche della visita pastorale, esclamò: «Così deve morire il vescovo!».

(di mons. Marco Navoni)

domenica 7 novembre 2010

Il vescovo in mezzo al suo popolo







A noi oggi fa impressione pensare che un vescovo potesse passare tutta la vita lontano dalla sua diocesi: ma questa purtroppo era spesso la norma prima della riforma promossa dal concilio di Trento. A Milano per esempio, prima di san Carlo, per almeno cinquant’anni gli arcivescovi furono sempre assenti, accontentandosi di delegare la cura pastorale ai propri vicari. Ebbene, san Carlo cominciò proprio da questo punto a stravolgere l’immagine del vescovo rinascimentale, riproponendo in maniera esemplare quella del vescovo-pastore, il quale “risiede” stabilmente nella sua diocesi, non tanto nel senso banale che vi abita, ma nel senso che vive in mezzo al suo popolo, ne condivide le condizioni di vita, i problemi, le ansie, anche i momenti di dramma, come durante la terribile peste del 1576. San Carlo era convinto che il vescovo, per la sua diocesi, fosse come lo sposo per la propria sposa: ogni assenza ingiustificata, ogni diserzione dal proprio ministero, era come un tradimento nei confronti dei fedeli affidati alle sue cure, come un “adulterio”. Il vescovo dunque in mezzo al suo popolo, pronto, come il Buon Pastore, a dare la vita per le sue pecore.


(di mons. Marco Navoni)

sabato 6 novembre 2010

La "conversione" di Carlo Borromeo






Come per ogni santo, anche per Carlo Borromeo, ci fu il momento della “conversione”. Infatti, quando nel 1562 il fratello maggiore improvvisamente muore, si sentì chiamato da questo fatto tragico a rivedere l’impostazione della sua vita e a prendere una decisione. Sappiamo che la sua carriera ecclesiastica si era sviluppata in maniera automatica per un figlio cadetto di una famiglia nobile che poteva vantare uno zio papa! Ora però diventava lui l’erede di tutto: avrebbe potuto decidere di abbandonare la condizione ecclesiastica per portare avanti la linea dinastica. E invece la morte del fratello provocò in lui un vero e proprio “trauma” di carattere religioso: decise consapevolmente di rinunciare alla brillante vita mondana che avrebbe potuto condurre come erede della ricca e nobile famiglia Borromeo, e decise altrettanto consapevolmente di “regolarizzare” la propria situazione ecclesiastica. Era già stato preconizzato arcivescovo di Milano e capì che quella era la volontà di Dio sulla sua vita; né volle tornare indietro. E così il 17 luglio 1563 si fece ordinare prete e il 7 dicembre (festa di sant’Ambrogio) ricevette l’ordinazione episcopale.
(di mons. Marco Navoni)