lunedì 11 febbraio 2019

Madonna dell’Equilibrio, prega per noi!




«Santa Maria dell’Equilibrio... Ah proprio quella che ci vuole!» disse San Paolo VI, ricevendo le copie dell’immagine mariana, nel settembre del 1968. La nuova iconografia della Madre di Dio era stata scoperta per caso un anno prima: è un giorno di piena estate; siamo all’abbazia di Nostra Signora del SS. Sacramento a Frattocchie. Nell’ombra fresca della sua cella, un monaco trappista fa più fatica del solito a lottare contro la distrazione durante la preghiera. Per tutta la mattina non riesce a togliersi dalla mente la parola «equilibrio». 

Lo stesso giorno, mentre riordina vecchi oggetti finiti in soffitta, gli capita tra le mani una lastra di bronzo col rilievo di una Vergine orante, con le mani aperte verso l’alto in corrispondenza del volto. Vi è incisa la scritta Alma Æquilibrii Mater, santa Maria dell’Equilibrio. Riprodotta a colori su tela da fratel Armando Panniello, il quadro viene oggi conservato nell’Abbazia, centro della sua diffusione. Non stupisce che questo particolare culto mariano sia fiorito tra i cistercensi di stretta osservanza, meglio noti come trappisti, ordine religioso che vive il carisma della profondità, dell’approfondimento delle parole e dell’esperienza della fede cristiana. Un lavoro di scavo interiore che fa emergere tesori preziosi per la vita spirituale dell’uomo contemporaneo, così frammentata e indebolita da mille sollecitazioni diverse, da mille false priorità che presto svelano la loro inconsistenza. «Davvero è urgente riscoprire l’equilibrio nella nostra vita — scrive don Tiziano Soldavini, autore di una novena in cui si prega la Madonna venerata dai monaci (Milano, Gribaudi, 2018, pagine 63, euro 6) — e sappiamo quanto sia facile perderlo. Chi pensa di poterne fare a meno vive giornate segnate dall’instabilità e dall’eccesso e una vita approssimativa e disorientata. Diamoci da fare e in fretta, a imparare l’arte dell’equilibrio». Le obiezioni non mancheranno, scrive l’autore a conclusione del volumetto. Per rispondere a chi si chiederà «perché ripetere sempre le stesse parole», recitando il rosario o pregando con le formule sempre uguali di una novena, don Soldavini cita De Foucauld, «l’amore si esprime con poche parole, sempre le stesse e che ripete sempre». E racconta una scena, semplice ma commovente, vista in viaggio: «Una signora in treno aveva messo a dormire il suo bambino nella rete portabagagli. Quando il piccolo si svegliò, vide dall’alto della rete la sua mamma seduta di fronte a vegliarlo. “Mamma!” Fece. E l’altra: “Tesoro!”. Per un pezzo il dialogo tra i due non cambiò: “mamma” di lassù, “tesoro” di laggiù. Non c’era bisogno di altre parole». In fondo, anche le parole della Regola di san Benedetto — le stesse da secoli — continuano a plasmare la vita dei monaci. Una regola, a sua volta, basata interamente sul desiderio di rispondere a un’unica domanda: «Chi vuole la vita e desidera giorni felici?».

L’EQUILIBRIO, UN SENSO CRISTIANO?

Che cos’è, in un sensocristiano e ad una riflessione più profonda, questo equilibrio? Non si tratta certamente dell’immobilismo di cui danno prova quelle “statue viventi” che vediamo nelle piazze delle nostre città, e che potrebbe tradursi per noi in un immobilismo interiore per cui, per paura del cambiamento o della caduta, restiamo arenati in situazioni che non concorrono al nostro bene. Relazioni sbagliate, ad esempio, che non costruiscono un progetto di vita cristiano ma sono diventate ormai un nido rassicurante e comodo. O, al contrario, la paura di impegnarsi fino in fondo, che porta a rimandare il passo definitivo stagnando in un eterno fidanzamento. Si sa, ogni scelta comporta un rischio, ma a voler evitare il rischio di vivere si arriva direttamente alla morte. Se non altro, alla morte dei progetti, dei desideri, e, su questa strada, alla morte della relazione con Dio, che si nutre proprio della nostra disponibilità a metterci in gioco. Il rischio allora di seguire i propri ideali più profondi, di interrogarsi sulla propria vocazione, di mettere al mondo un altro figlio… Un autore contemporaneo ci provoca chiedendosi, senza mezzi termini: «Esiste un uomo tanto codardo da non preferire cadere almeno una volta piuttosto che vacillare in eterno?» (C. McCarthy). Meglio rischiare, cioè, di perdere l’equilibrio, nell’avventura di tutta una vita per cercarlo.

Perché il cristiano non si accomoda mai. Il suo equilibrio non è quello di chi sta comodamente nel mezzo, senza esporsi troppo, così da non dispiacere a nessuno. A volte, per un “quieto vivere”, lasciamo che le ingiustizie, i giudizi temerari, il pettegolezzo passino davanti a noi senza prendere posizione. Il cristiano non è neutrale, e chi cerca in questo modo la pace non sta cercando Cristo che è venuto piuttosto «a portare la guerra» (cfr. Lc 12,49). Simone Weil scrisse che «il dovere dell’uomo spirituale è quello di ristabilire l’equilibrio, portandosi al fianco dei vinti e degli oppressi», e che occorre dunque essere pronti a spostarsi come si sposta continuamente, nel nostro mondo, la giustizia.

La virtù dell’equilibrio non si identifica dunque con la saggezza del mondo, che segue spesso un criterio di convenienza personale. Per il cristiano «essere saggi è più pericoloso che essere pazzi. E’ l’equilibrio di un uomo dietro cavalli che corrono a precipizio» (G. K. Chesterton), e questo perché la saggezza cristiana è vivere e pensare a partire da Cristo e dalla Sua presenza viva nella storia. Egli è il Dio che viene, che abita in mezzo a noi, che nutre pensieri di pace, che interviene, che apre strade nei nostri deserti, che semina novità nelle nostre giornate sempre uguali. Se viviamo e pensiamo a partire da Lui e in riferimento a Lui, abbiamo un nuovo centro, un nuovo bari-centro per la nostra esistenza. In Maria, fin dall’Annunciazione, è accaduto in maniera unica ed esemplare tutto questo. Maria è la donna dell’equilibrio perché si è lasciata portare da Dio sull’orlo del più grande precipizio. “Sarai la Madre di Dio”: baratro di mistero, paradosso abissale, dove la mente dell’uomo si ferma colma di spavento. Era un annuncio da vertigine, fu una vita intera da vertigine, quella di Maria, così sospesa tra l’umano e il divino, la grandezza ineffabile e la concretezza del corpo di un bambino. Eppure Maria non cadde, perché accettò il rischio di essere condotta da Dio, portata dal suo stesso Figlio. Una donna incinta reimpara l’equilibrio perché, anche se impercettibilmente, il baricentro del suo corpo cambia, a seconda del peso del bimbo che porta in grembo. I santi, coloro cioè che portano Cristo nella loro persona, nel loro cuore, nella loro mente, e nel loro corpo – e si scoprono così portati da Lui – sono uomini che hanno rinunciato al loro equilibrio, a conservare gelosamente cioè tutto ciò che per noialtri è così difficile da donare a Cristo. Preoccupazioni, calcoli, paure, interessi: Cristo ci scardina, ci decentra, ci “squilibra” per donarci un nuovo equilibrio. Quello, appunto, di un uomo “dietro cavalli che corrono a precipizio”, un uomo aperto al nuovo, disponibile al fiat, fatto per la generosità. «L’amore del Cristo ci spinge» (2Cor 5,14): ecco il nuovo, rischioso equilibrio che hanno vissuto Maria, S. Paolo e la grande schiera dei santi.

E che anche noi possiamo umilmente imparare, mettendoci alla loro scuola e accettando di allenarci, come l’equilibrista sul filo. Denunciando, ad esempio, tutto ciò che in noi è immobile, stretto dalle paure, condizionato dalla mentalità dominante; tutto ciò che non fa spazio al coraggio, alla generosità. E’ la generosità ad equilibrare la nostra vita, in tutte le sue dimensioni, perché essere generosi è essere spinti dall’amore di Cristo che si è fatto il nostro punto di appoggio. La generosità di quel giovane marito di Milano che chiedeva alla moglie, già madre di due bimbi, di accoglierne un altro in adozione. E che di fronte al timore della moglie, che gli prospettava tutte le possibili difficoltà del progetto, arrivando a chiedergli: “E se io morissi dopo poco tempo?”, rispose: “Anna, ma io non vivo per te”. Il coraggio di un uomo che nulla temeva, perché viveva in equilibrio sulla grande, potente fune della fedeltà di Dio.

 
PREGHIERA ALLA VERGINE
Vergine Maria, dona sempre equilibrio ad ogni azione della vita mia.
Equilibrio nel lavorare, nel pregare, nell’amare, nell’avere, nel donare, nel tacere e nel parlare.
Dona equilibrio ai pastori e ai politici nel governare.
Ai genitori e agli insegnanti nell’educare.
Ai giovani nel programmare.
Dona a tutti noi fede, forza, coraggio, solo così arrivati a sera, equilibreremo le sorti nostre con l’amore Tuo e del Tuo Figlio.
Così sia!

domenica 10 febbraio 2019

Beata Cera: Chiara da Rimini



Dal Martirologio Romano alla data del 10 febbraio: “A Rimini, beata Chiara, vedova, che espiò con la penitenza, la mortificazione della carne e i digiuni la precedente vita dissoluta e, radunate delle compagne in un monastero, servì il Signore in spirito di umiltà.”

«Femina so’ e peccatrice». Da questa immagine negativa del femminile riconosciuta e confessata muove, all’interno dei recessi più profondi dell’anima e tra le mura di una città medievale tra Due e Trecento, il viaggio di Chiara da Rimini verso la santità.

Ma chi è Chiara? La leggenda agiografica che ne racconta la vita è tramandata da un manoscritto in volgare italiano, venato di forme dialettali romagnole, del tardo secolo XV, tuttora conservato a Rimini: leggenda scandagliata nelle pieghe più sottili da Jacques Dalarun in un libro dalla forza narrativa catturante, Santa e ribelle, che smonta e rimonta tempi, spazi, eventi dell’itinerario terreno della santa. Nel contempo, due convegni sui santi, a Spoleto e a Firenze, fanno da più largo contesto al libro di Dalarun, e mostrano l’interesse attuale per l’agiografia (vicende, miracoli, traslazioni di reliquie di santi), i cui meccanismi costituiscono un campo di indagine storiografica di prim’ordine.

Chiara nasce poco oltre la metà del Duecento, secolo che con le sue proiezioni nel Trecento vede nel triangolo tra Toscana, Romagna e Umbria la santità femminile anche di Margherita da Cortona, Angela da Foligno, Chiara da Montefalco, cui seguirà la più grande delle mistiche, Caterina da Siena. Sullo sfondo s’irradiano i bagliori di Francesco d’Assisi. Quello di Chiara da Rimini è il percorso della mondana pentita. La leggenda la colloca nella sfera alta della società riminese; circostanza sospetta, introdotta forse al fine di accrescerne i meriti quando si spoglierà dei suoi beni. Dotata di «excessiva bellezza del corpo» non meno che «di ogni lascivia piena», s’infiamma per il denaro come per il sesso, si immerge nella vanità del lusso, gode di ogni «ghioctitudine» della tavola, si abbandona ai «mali desideri». Data in sposa assai giovane dal padre ad un uomo non scelto, all’età di ventiquattro anni ha già perso – per morte naturale o per vicende violente – madre, matrigna, padre, fratello, marito; ma i sensi la gettano verso un secondo «carnal marito». Il solco è in qualche modo simile a quello di Margherita da Cortona che vive nove anni in concubinaggio con un ricco debosciato, o di Angela da Foligno che conduce una vita ebbra e dissoluta. Donne come queste, sposate e comunque non vergini, non sono votate alla santità. Non aveva forse detto Pier Damiani che il solo limite all’onnipotenza di Dio era che non poteva ridonare la verginità perduta? Ma queste donne, tra una femminilità vissuta nella carne e offerta all’uomo, e una femminilità negata in sé e offerta a Dio, scelgono una terza via, quella di una «conversione» dall’una all’altra.

Chiara è attirata, come da un amante, nella chiesa di San Francesco di Rimini. Entra. Vi ritorna. E quasi «novo pensiere et corpo avesse preso» riconosce «i soi passati errori». Si separa dal marito, che presto muore. Libera, si unisce al suo terzo sposo, Cristo. È «facta religiosa», e la sua vita si capovolge. I travagli sono molti. Alla fine Chiara si insedia in una stanza tutta per sé, alla quale da lungo tempo anelava, una celletta nelle mura della città antica: non a caso, giacché le mura stanno a significare una zona di confine, quasi riflesso della linea che separa il terreno dal celeste. Penitente, porta il cilicio fatto di pelle di maiale rivoltata dal lato delle setole, in modo che più crudeli ne risultino i colpi sulla carne peccatrice. Punisce la sua «ghioctitudine» rinunciando a gustosi pollastri e ad altri «delectevoli animali in lesso o arosto», e mangia il rospo, la bestia schifosa, nella quale il Medioevo simbolicamente combina l’orrore per il cibo e l’orrore per il sesso. Nelle strade e nelle piazze cittadine Chiara «urla como lupo e ciufola como serpente» le sue colpe facendosi battere da due aguzzini prezzolati, quasi reiterando la passione di Cristo tra i ladroni nella sofferenza del corpo martoriato. Novello apostolo, predica, svergogna i peccati, e converte. Chiede l’elemosina di uscio in uscio e ne distribuisce il ricavato ai poveri.

L’amore di Dio spinto al rigore estremo dello spirito e all’umiliazione lacerante della carne, sfacciatamente esibito, può diventare scandalo. Le sante italiane dei secoli XIII e XIV possedute dalla smania di espiazione e ululanti un passato scellerato sembrano talora rimandare ai santi folli del mondo greco-orientale. Angela da Foligno, in piena quaresima pasquale, sogna di girare nuda per le piazze, con un rosario di pesci e carni al collo, per gridare in faccia alla gente i suoi appetiti e le sue malizie. Rinsecchita dai digiuni, macerata nel corpo, la bocca scheletrita, pallida, scalza, ossessionata dalla passione della croce, Chiara da Rimini cammina sull’ambiguo rasoio che passa tra folle amore di Dio ed eresia. Supera la prova. Ispirata dalla percezione sensibile, oculare, delle immagini sacre si accende di visioni dell’anima. Compie miracoli, con i quali il Signore le manifesta il suo favore. Fonda una comunità femminile. Ha il riconoscimento delle gerarchie ecclesiastiche. E intorno agli anni Venti del Trecento trova al suo capezzale l’agiografo che narra la sua vita, il tempestoso viaggio verso la santità che le si dischiude.

Scrive Dalarun: «L’agiografia è un palazzo di specchi in cui errano e si sfiorano esseri allucinati, cercando di vedere, al di là del gioco di riflessi, il volto accecante dell’eterno». Ma lo storico vede anche oltre quel «palazzo di specchi». Smontare i meccanismi dell’agiografia significa svelare le strategie che hanno governato la santità. Non conta solo la verità storica dei fatti narrati, tante volte confusa, sgranata e aleatoria, o isolare singole notizie verificabili all’interno della leggenda. Esiste una veridicità agiografica, la quale si trova all’incrocio di dinamiche sociali, religiose, spirituali, e che riverbera mentalità, modelli di comportamento, pratiche culturali, sistemi di rappresentazione, forme di immaginario individuale o collettivo. Promozione e riconoscimento della santità, nascita di culti, varianti e definizioni della iconografia o della liturgia di un santo rinviano a dimensioni o fattori che possono essere di volta in volta politici, istituzionali, economici oltre che religiosi e spirituali. Chiara non occupa da sola l’intera scena riminese. Nella città, stabilmente o di passaggio, agiscono ceti dirigenti, fazioni politiche, movimenti spirituali, gruppi in odore di eresia, comunità conventuali, poteri ecclesiastici, erudizione locale. Tutto sullo sfondo di una gremita, animata e vociante vita quotidiana. Microcosmo corale del tardo Medioevo, Rimini diventa così palcoscenico sul quale, smontata nei suoi meccanismi, la leggenda di Chiara recita la storia.

 

FONTE:

Chiesa di Corpolò

Jacques Dalarun, Santa e ribelle. Vita di Chiara da Rimini, Laterza 2000.

Il Corriere della Sera, 24/10/2000

giovedì 7 febbraio 2019

"Per essere all’altezza dell’amore" (Nek)














Mi farò trovare pronto
A certi strani mutamenti
Con la guardia sempre alta
Anche con i sentimenti… anche con i sentimenti
Sono pronto sono pronto
A non esser pronto mai
Per essere all’altezza dell’amore
Sono pronto sono pronto
Come non ho fatto mai
Per essere all’altezza dell’amore
Mi farò trovare pronto
All’impatto col tuo nome
La tua firma sulla pelle
È la mia rivoluzione
Mi farò trovare pronto
Ad ogni regola che inverti
Ogni legge, ogni principio non saranno più gli stessi
Con la guardia sempre alta
Anche con i sentimenti… anche con i sentimenti
Libri di milioni di parole
Ce ne fosse almeno una
Per essere all’altezza dell’amore
Frasi di chissà quale canzone
Ne venisse adesso una
Per essere all’altezza dell’amore
Sono pronto sono pronto
A non esser pronto mai
Per essere all’altezza dell’amore
Sono pronto sono pronto
Come non ho fatto mai
Come non ho fatto mai… mai
Scene del più grande film d’autore
Non c’è trama né copione
Per essere all’altezza dell’amore
Libri di milioni di parole
Ce ne fosse almeno una
Per essere all’altezza dell’amore
Frasi di chissà quale canzone
Ne venisse adesso una
Per essere all’altezza dell’amore
Mi farò trovare pronto
Con l’amore in mezzo ai denti
Con la guardia sempre alta
Anche con i sentimenti… anche con i sentimenti
Sono pronto sono pronto
A non esser pronto mai
Per essere all’altezza dell’amore
Sono pronto sono pronto
Come non ho fatto mai
Come non ho fatto mai… mai