mercoledì 18 agosto 2021

"Il giudice santo"

 

Rosario Angelo Livatino nacque a Canicattì (Agrigento, Italia) il 3 ottobre 1952. Iscrittosi alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo, il 9 luglio 1975 conseguì la Laurea con il massimo dei voti.

Sin dalla giovinezza partecipò all’Azione Cattolica e frequentò la parrocchia, dove teneva conversazioni giuridiche e pastorali, dava il proprio contributo nei corsi di preparazione al matrimonio e interveniva agli incontri organizzati da associazioni cattoliche. Anche da Magistrato continuò a vivere l’esperienza della comunità parrocchiale. Recandosi al lavoro presso la Procura di Agrigento, sostava presso la vicina chiesa di San Giuseppe per la visita al Santissimo Sacramento.

Ebbe brevi frequentazioni con alcune ragazze.



Il 18 luglio 1978, entrò in Magistratura come Uditore giudiziario presso il Tribunale di Caltanissetta. Dal 24 settembre 1979 al 20 ottobre 1988 svolse l’incarico di Uditore giudiziario con funzioni di Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento. Tra il 1984 e il 1988 il Servo di Dio risultò essere, per riconoscimento del Consiglio Superiore della Magistratura, il Magistrato più produttivo della Procura di Agrigento.

Il 29 ottobre 1988, a 35 anni di età, dopo aver seguito regolarmente il corso di preparazione, volle ricevere il sacramento della Confermazione.

Il 21 agosto 1989 prese possesso del nuovo incarico di Magistrato del Tribunale di Agrigento, dove svolse le funzioni di Giudice della sezione penale. Il 21 aprile 1990, dopo aver frequentato la Scuola biennale di formazione in diritto pubblico regionale nell’Università degli studi di Palermo, conseguì il Diploma con lode. In quegli anni a Canicattì e in tutto il territorio agrigentino la situazione sociale era scossa da una vera e propria “guerra” di mafia, che vedeva contrapposti i clan emergenti (denominati Stiddari) contro Cosa Nostra, il cui padrino locale era Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso condominio del Servo di Dio.

Il 21 settembre 1990, il Servo di Dio venne ucciso in un agguato, sulla strada statale 640 che conduce da Canicattì verso Agrigento, mentre viaggiava da solo, in automobile, per recarsi in Tribunale, dove lavorava.

Il Servo di Dio venne assassinato mentre, come ogni mattina, si recava al lavoro con la propria auto. La dinamica dell’omicidio si caratterizzò per particolare ferocia, come fu riconosciuto dalla Corte d’Assise di Caltanissetta. In fin di vita, prima del colpo di grazia esploso in pieno volto, egli si era rivolto agli assassini con mitezza.

La motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpire il Servo di Dio fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Durante il processo penale emerse che il capo provinciale di Cosa Nostra Giuseppe Di Caro, che abitava nello stesso stabile del Servo di Dio, lo definiva con spregio santocchio per la sua frequentazione della Chiesa. Dai persecutori, il Servo di Dio era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante. Dalle testimonianze, anche del mandante dell’omicidio, e dai documenti processuali, emerge che l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei. Inizialmente, i mandanti avevano pianificato l’agguato dinanzi alla chiesa in cui quotidianamente il Magistrato faceva la visita al Santissimo Sacramento.

Il Servo di Dio era consapevole dei rischi che correva. Malgrado le intimidazioni, continuò a compiere il proprio dovere con rettitudine, rispettoso verso ogni persona, anche se indagata o detenuta. Giunse ad accettare la possibilità del martirio attraverso un percorso di maturazione nella fede. A trentacinque anni volle ricevere la Cresima. La partecipazione ai sacramenti e l’assidua preghiera lo resero sempre più consapevole nella sua testimonianza cristiana. Per non esporre alla morte altre persone «lasciando vedove e orfani», rifiutò la scorta; questa motivazione poté influire anche sulle mancate nozze. Durante alcuni momenti di scoraggiamento si affidava al Signore. Nelle sue agende personali appare sistematicamente la sigla S.T.D. a significare “Sub tutela Dei”.

La fama di martirio del Servo di Dio perdura sino ad oggi ed è accompagnata da una certa fama di segni. (FONTE)