Adagiata sul fianco di un
colle, dominata dalla Rocca d'Arce, in bella posizione presso lo sbocco del
Valle del Liri, Arce conserva nelle ripide e strette vie del suo centro storico
l'aspetto medievale. Gran parte dell'abitato moderno invece si è sviluppato
lungo la sottostante via Casilina e qui la laboriosità di suoi abitanti ha
concentrato molte sue attività.
In due epistole, una al
fratello Quinto, l'altra all'amico Tito Pomponio Attico, Cicerone parla del
territorio "Arcanum" e di una Villa Arcana, descritta e magnificata.
Certo del periodo romano restano iscrizioni e alcuni reperti. Non dimentichiamo
che nel territorio di Arce era sita la colonia latina di Fregellae fondata dai
Romani nel 328 a.C.
Oggi è un importantissimo
parco archeologico, che, con scavi scientifici a livello universitario, sta
rinvenendo alla luce ed è visitabile in qualunque momento dell'anno. Nel
medioevo Arce ha conosciuto vicende storiche travagliate: occupata nel Vl sec.
dai Goti di Totila, guerra con i Bizantini, venne devastata in seguito dalle
orde saracene.
Fu luogo strategico di
notevole importanza, situato al confine tra Stato Pontificio e Regno di Napoli.
Tra le sue chiese citiamo: SS. Pietro e Paolo (XVII sec.) con due torri
campanarie e l'interno a croce greca; Santa Maria che conserva un crocefisso
ligneo pregiato e "miracoloso"; Sant' Antonio con un magnifico
portale del XII secolo.
La chiesa parrocchiale di Arce, Arcipretale e
Collegiata, è dedicata ai Santi Apostoli Pietro e Paolo.
È a forma di
croce greca, da un’iscrizione nell’abside apprendiamo come la chiesa fu
edificata tra il 1702 e il 1744; consacrata il 17 dicembre di quell’anno dal
Vescovo diocesano S.E. Mons. Antonio SPADEA.
La
tradizione vuole che fosse stata costruita con il lavoro spontaneo di tutta la
popolazione.
Si hanno
notizie frammentarie su di un’antica chiesa dedicata al solo San Pietro e che
doveva trovarsi in quel luogo.
L’attuale
complesso architettonico domina maestosamente piazza Umberto I (che si trova a
245,46 metri s.l.m.); ha una superficie di 540 mq ed una cupola alta 24 metri,
una capienza di 1500-1800 persone; è di stile barocco con molti stucchi e
dipinti.
Di epoca più
antica sono i dipinti del secondo cornicione, gli altri furono effettuati con i
restauri generali del 1910, quando era parroco Don Giuseppe MARROCCO e Vescovo
diocesano S.E. Mons. Antonio Maria JANNOTTA.Il pittore che realizzò queste
opere fu Edoardo RIGHI con l’aiuto di decoratori locali, fra cui Eleuterio
PELILLO e di stuccatori fatti venire appositamente da Firenze.
L’altare
successivo è quello dedicato al Sacro
Cuore di Gesù, fino alla metà del secolo era dedicato al Santissimo Sacramento, l’attuale statua
a sostituito una pala raffigurante l’ultima cena negli anni ’50; sono da notare
i due angeli ai lati dello stesso con le seguenti frasi: “VENITE ET COMEDITE
PANEM MEUM – Prov. 9-5” cioè “Venite e mangiate il mio pane”; “SI QUIS
MANDUCAVERIT EX HOC PANE VIVET IN ATERNUM – Num. 90-10” cioè “Chi mangia di
questo pane vivrà in eterno” (Giovanni VI, 58), in questo altare si celebravano
i matrimoni e vi si conservava l’olio degli infermi in un tabernacolo nella
parete. Nei due rosoni sovrapposti si possono ammirare due scene, in stucco,
del Nuovo Testamento. Poste nella parte superiore dell’altare ci sono due
statue la Vigilanza e il Magistero. Altre particolarità di quest’altare sono le
due mensole semicircolari sorrette da figure maschili a mezzo busto sui lati;
nel paliotto centrale due scene dell’Antico Testamento. Belli anche gli stucchi
delle pareti laterali, ed in particolare quello sopra il tabernacolo dell’olio
degli infermi che rappresenta un Santo che entra in un paese da una torre (o
chiesa) esterna; l’altro nella parete destra, rappresenta la morte dello
stesso.
Proseguendo
si incontra una lapide funeraria, l’unica, datata 1859, essa ci fa capire come
nella metà dell’800 i morti si seppellissero ancora nella chiesa. Continuando
la nostra visita incontriamo due amboni in marmo, quest’opera offerta dal Geom.
SERA Don Carlo in memoria della consorte defunta N.D. Maria BARTOLOMEI, furono
realizzati nel 1965 dov’erano gli altari dell’Immacolata e di San Giuseppe da
una ditta di Ceprano. Il primo altare, cioè quello dell’Immacolata, all’epoca della costruzione della chiesa, era di
patronato del canonico Germani, come si può notare vi sono due stucchi al lato
di esso che rappresentano lo stemma della famiglia del canonico, l’attuale tela
raffigurante l’Immacolata è stata realizzata dall’artista locale Alberto
PELAGALLI ed ha sostituito quella precedente che è stata rubata che
rappresentava l’Immacolata opera dell’artista locale Raffaele QUATTRUCCI che
era una copia del quadro del MURILLO. Nel cartiglio è contenuta la
seguente iscrizione: “IN CONCEPTIONE TUA VIRGO IMMACOLATA FUISTI ORA PRO NOBIS
PATREM CUIUS FILIUM JESU PEPERISTI” cioè “Nel tuo concepimento fosti Vergine
Immacolata prega per noi il Padre di cui generasti il Figlio Gesù”. L’altro,
cioè quello di San Giuseppe agli
inizi dell’800 era di patronato della famiglia PESCOSOLIDO; la pala rappresenta
la Sacra Famiglia con San Giovanni Battista. Nel rosone che sovrasta l’altare,
a stucco, è raffigurato San Vincenzo
Ferreri nel cartiglio vi è la seguente iscrizione: “CUM ESSET DESPONSATA
MATER JESU MARIA JOSEPH” cioè “Essendo Maria la Madre di Gesù promessa in
matrimonio a Giuseppe” (ufficio votivo di S. Giuseppe sposo della B.V.M.,
Antifona I).
Passando ad
ammirare l’altare maggiore possiamo
dire che la parte anteriore è stata costruita con pregevole marmo policromo
dalla ditta Rubino di Napoli nel 1949; da ammirare il bassorilievo del paliotto
raffigurante l’ultima cena, agli inizi degli anni ’70, per adattarlo alla nuova
liturgia, fu costruita la parte anteriore (mensa) e la balaustra. Celato dall’altare
vi è il coro in legno, la semplicità dello stile lo fa apprezzare per la sua
eleganza. Alle pareti di lato sono rappresentati: a sinistra, la consegna delle
chiavi del paradiso a San Pietro (Mt. XVI, 17-19) e a destra la conversazione
di San Paolo sulla strada di Damasco (Atti IX, 1-9).
Nel cielo,
sopra questo braccio, l’Eterno Padre nella creazione del mondo, negli angoli:
la Giustizia, la Pace, la Carità e la Verità; nelle lunette i profeti Isaia,
Geremia, Ezechiele e Daniele. Nel catino dell’abside vediamo in un coro
angelico San Pietro e San Paolo con sotto l’iscrizione: “PETRUS ET PAULUS IPSI
NON DOCUERUNT LEGEM TUAM DOMINE” cioè “Pietro e Paolo quegli stessi che
insegnarono a noi la tua legge o Signore”. Qui è anche riprodotto lo stemma del
Comune di Arce e vi è l’iscrizione relativa al restauro della chiesa; che
attualmente non è visibile a causa dell’installazione del nuovo organo da parte
della ditta BEVILACQUA di Torre dei Nolfi (AQ), in occasione del 25°
anniversario di vita sacerdotale di Don. Antonio MARCIANO, qui vi è
l’iscrizione: “LAUDATE DEUM CHORDIS ET ORGANO” cioè “lodate Dio con le corde e
con l’organo”.
Il sesto
altare è quello dedicato a San Rocco,
comprotettore della città di Arce. Anch’esso ha subito dei restauri nel 1956
con l’offerta di tutta la popolazione, vi è la statua del santo, non ha
cartiglio ma vi è ugualmente l’iscrizione che è la seguente: “PESTE
LABORANTE ROCHE PATRONUS ERIS” cioè “mentre imperversa la peste o Rocco
sarai Patrono”, come è noto protegge dalla peste. Sovrasta l’altare una piccola
tela raffigurante l’Assunzione della Madonna al Cielo.
Il settimo
ed ultimo altare è quello dedicato alla Madonna
di Pompei; questo fino alla metà di questo secolo era denominato del
Crocifisso e/o della Morte perché vi si celebravano i funerali. Il rosone che
sovrasta l’altare rappresenta la Madonna Addolorata, nel cartiglio
l’iscrizione: “CUJUS ANIMA GEMENTE CONTRISTATA ET DOLENTE PERTRANSIVIT
GLAUDIUS” cioè “una spada a Te gemente tenerissima e dolente trapassava
l’anima”; sovrasta l’intero altare uno stemma turrito con il monogramma “PAX”.
A quest’altare venne cambiata denominazione da altare del Crocifisso, nome
dovuto alla pala raffigurante un Crocifisso, a Madonna di Pompei perché vi si
tenevano i “sabati” a Lei dedicati, ed essendo la tela logora e abolita la
funzione principale dell’altare, cioè la celebrazione die funerali nel 1956 fu
realizzato il mosaico e l’altare in marmo come appare attualmente, il quadro
della Madonna è opera dell’artista locale Marco D’EMILIA, ed ha sostituito la
stampa rubata. Il cielo è affrescato con l’offerta di Giuda il Maccabeo al tempio di Gerusalemme perché si offrisse un
sacrificio per i suoi soldati morti (II Maccabeo XII, 43). Proseguendo si
passa vicino alla nicchia contenente le statue dell’Addolorata e
dell’Immacolata, passando oltre si ammira il grande Crocifisso; il cielo è
affrescato con degli angeli ovali che contengono angeli con i simboli della
passione. Tornati al centro della chiesa e voltandoci a guardare sopra
l’ingresso principale possiamo ammirare l’organo antico, opera del celebre
organaro CATARINOZZI e l’affresco nel cielo del braccio che rappresenta il
trasporto dell’arca dell’alleanza intorno alle mura di Gerico, che con squilli
di trombe fecero cadere le mura della città (Giosuè VI, 1-27).
I quadri
della Via Crucis sono stati messi l’8 marzo 1957.
La pavimentazione,
in pietra “perlato d’Ausonia”, è opera della ditta IACOBUCCI di Frosinone.
Le attuali
acquasantiere hanno sostituito quelle rubate nel 1986, le quali erano state
donate da Olga SANTORO per lascito di Alfonso TRONCONI.
SANT'ELEUTERIO
PELLEGRINO
Sant’Eleuterio nacque a
Silions in Bretagna, nella seconda metà
del VII secolo, dalla famiglia apprese i primi insegnamenti cristiani.
Egli cresceva pieno di
vita, di gentilezza e di altruismo con una semplicità che gli veniva dal cuore.
Ancora molto giovane
rimase colpito dagli insegnamenti dei monaci benedettini mandati dal Papa
Gregorio I per evangelizzare quelle terre.
Ricevette il battesimo ed
aderì con slancio ed ardore alla fede e alla dottrina cristiana.
Il suo carattere era
affabile ma celava una più autentica virtù di forza, una volontà senza
incrinature, che Lo avrebbe avvicinato sempre di più all’Altissimo.
Dal padre imparò
sicuramente l’antica arte delle armi, che sapeva condurre con intelligenza e
profitto, tuttavia preferiva condurre una vita spensierata in compagnia degli
amici.
Mai però usava parole volgari,
mai commetteva villanie.
Al padre che si lamentava
della spensieratezza del figlio la madre rispondeva “vedrai, Eleuterio, non si perderà: ama tanto il Signore ed è troppo
buono!”.
La bontà, l’amore erano
la sua caratteristica, il fondamento della sua personalità.
Aveva appena venti anni;
la vita era tutto uno sbocciare di sogni e di speranza. La sua intima gioia e
la sua ardita consapevolezza si manifestavano nella irrequietezza gaudiosa, nel portamento aitante.
Egli ardiva di vivere e
di lottare per un grande ideale al servizio di Cristo. Ecco l’occasione
propizia: il viaggio di alcuni suoi compagni in Terra Santa.
Essi decidono di partire
per suggellare la loro conversione, il Sacro Legno della Croce, dopo alterne
vicende, è stato riportato a Gerusalemme.
Essi vogliono partire e
venerare la tomba di Cristo e conoscere i luoghi che avevano visto la
predicazione, i miracoli e la Passione del Signore.
Eleuterio è ardente ed
entusiasta del viaggio che gli si prospetta, i Luoghi Santi sono di nuovo nelle
mani della cristianità, la via per Gerusalemme è libera; finalmente il suo
sogno si sta per realizzare.
La madre spaventata non
vuole che parta, ma Lui ricco di Spirito Santo decide di partire, abbandona
tutto e nella pienezza del suo spirito giovanile parte dalla sua casa per la
sua meta: Gerusalemme.
Eleuterio si prepara per
affrontare il viaggio, indossato un semplice saio, e preso un ampio mantello,
senza maniche in modo che gli possa servire sia da riparo per la pioggia che da
coperta, mette un cappello a larga tesa, per proteggersi il viso dal sole e per
impedire alla pioggia di scendere lungo la schiena, prende il bastone, servirà
lungo il viaggio ad offrire sicuro appoggio sulle montagne e
nell’attraversamento dei fiumi, parte per la sua meta.
Il nostro Eleuterio è
impaziente di vedere la Santa Gerusalemme e la Terra Promessa.
Si incammina, lascia la
sua terra e attraversa il mare, va in
Francia, segue la via Domitia, supera le Alpi al passo del
Moncesio.
Giunto in Italia, da
Torino si diresse verso oriente sino ad Aquilea seguendo un tratto della via
Postumia, toccando Tortona, Piacenza, Cremona, Verona e Vicenza da qui
finalmente giunge a Venezia.
Qui si imbarca su una
delle navi dirette in Palestina.
La nave segue il tratto
della costa dalmata passando dai depositi mercantili veneziani in Grecia, a
Rodi e a Cipro, fino ad arrivare a Giaffa, sulla costa asiatica, da qui poi a
piedi va a Gerusalemme.
Il viaggio durò circa 40
giorni, le difficoltà incontrate vennero affrontate e superate con la fede e la
preghiera.
Finalmente giungono in
Terra Santa; appena avvistata la costa della Palestina Eleuterio e i suoi
compagni ringraziano il Signore che ha concesso loro di vedere la Santa
Gerusalemme e la Terra Promessa.
Visitò con grande
trasporto la città di Gerusalemme e i luoghi Santi; girò per la Galilea e pregò
sulla terra che Cristo aveva calpestato con i Suoi Piedi e dove si manifestò in
Corpo e Spirito.
Pregò con fervore sul
Santo Sepolcro, ormai liberato dagli infedeli, il Cenacolo ed il Golgota.
Quanto tempo si sia
fermato nei luoghi santi non ci è dato a sapere ma, quasi certamente, dopo
essersi recato a Nazareth e rinnovato il suo “fiat” iniziò il suo ritorno verso
casa non prima, però, di aver visitato altre località sedi di Santuari e di
avvenimenti legati al cammino di Cristo e dei Suoi Apostoli o comunque connessi alla professione di fede.
Decise che giunto infine
in Italia prima di dirigersi verso Roma si sarebbe recato, per trascorrere
ancora un pò di tempo in solitudine e preghiera, sui luoghi dove apparve
l’Arcangelo Michele: il monte Gargano
Partito da Nazareth, si
diresse verso Antiochia, la città da dove partirono gli Apostoli per
evangelizzare il mondo, da qui a Tarso, città che diede i natali a San Paolo,
proseguì verso Costantinopoli dove poté venerare la corona di spine e il
perizoma di Gesù, il suo viaggio lo portò a Tessalonica, infine si diresse a
Durazzo dove si imbarcò per raggiungere Otranto.
Giunto così al porto di
Otranto, Eleuterio si diresse verso Brindisi e da qui sul Gargano fino a salire
sul sacro monte.
Qui al di sotto di un
unico masso roccioso c’è la chiesa di San Michele, che, come è noto, è stata
Consacrata proprio da Lui.
In questo luogo, trovò
rifugio in una grotta ed in digiuno, solitudine e preghiera trascorse le sue
giornate.
Dopo del tempo, certamente
dopo la festa dell’Arcangelo, l’8 maggio, decise di riprendere il viaggio verso
casa non senza però essere passato per Roma e aver pregato sulla tomba del
Principe degli Apostoli.
La strada che si
prospettava era lunga e faticosa.
Eleuterio, ed i suoi
compagni, si misero in viaggio verso Roma, seguirono la strada pedegarganica
che passava per la valle di Carbonara, da qui sull’altipiano di San Giovanni
Rotondo, il pantano di S. Egidio, S. Matteo, S. Marco in Lamis e da qui S.
Severo.
Da quest’ultima località
la strada si immetteva sulla via Litoranea passando per la contrada Branca,
dove sorge tuttora un casale dedicato a Sant’Eleuterio, attraversava il
Candelaro prendendo verso nord-ovest per Civitate e seguendo la via Traiana
verso Benevento e Montecassino.
La tradizione ci dice che
furono non meno di sette questi amici che in stretta concomitanza raggiunsero
la Valle del Liri.
Il viaggio fu sicuramente
lungo e faticoso, pieno di insidie e di pericoli; i compagni che lo avevano
accompagnato durante il viaggio muiono lungo la strada, dopo circa venti giorni
il giovane Eleuterio sopraffatto dalla fatica, dalle privazioni, ma felice per
aver espiato i propri peccati, giunge ad Arce, è il 28 maggio.
Eleuterio decide di
fermarsi ad Arce prima di passare nello Stato Pontificio.
Non abbiamo una cronaca
con i particolari di come avvenne, visto che i pellegrini non erano seguiti da
cronisti, ma la tradizione orale ci racconta che Eleuterio aspettando l’alba
per passare nello Stato Pontificio trovandosi al confine, vede che lì vicino al
ponte c’è una locanda, è notte, bussa alla locanda e l’oste vedendolo sporco e
senza soldi gli rifiuta l’ospitalità, gli aizza contro i cani, lo scaccia.
Ormai stanco, sente che
presto sarà nella gloria degli Angeli, trova un riparo di fortuna nella vicina
Campolato. Qui il Signore lo chiama a sé.
Gli abitanti del luogo lo
trovano all’alba del 29 maggio con i cani, che l’oste gli aveva aizzato contro,
a guardia e con un groviglio di serpenti ai piedi.
Immediatamente viene
seppellito, sulla sua tomba eretta una chiesa; è invocato contro il morso dei
cani rabbiosi e degli animali velenosi.
La fama della sua santità
non ha confini e da ogni parte vengono a chiedergli grazie, che Lui ricolma
ancora oggi dal cielo.
* * *
Leggendario
è quindi il nostro Eleuterio, le varie versioni della sua vita sono state tutte
tramandate oralmente nel corso dei secoli e qualche volta ci appaiono
contraddittorie perché arricchite da una buona dose di fantasia popolare.
Nessun documento, infatti, esiste per fissare l’epoca in cui egli sia vissuto.
Quella
precedentemente narrata è una delle versioni della vita. È probabile che al
Santo Pellegrino - sconosciuto agli arcesi - sia stato attribuito il nome
Eleuterio traendolo, forse dalla località ove fu rinvenuto il suo corpo:
sappiamo infatti, che nella zona vi era una villa di Quinto Cicerone denominata
«Laterium». Nel dialetto arcese il nome del Santo viene pronunziato «Lautèrie»,
che appare foneticamente molto vicino al termine «Laterium».
Le scarse
notizie storiche fanno collocare l’origine del culto nella seconda metà del XVI
secolo. Il primo accenno relativo all’esistenza del santuario risale al 1564,
quando tutte le chiese della diocesi d’Aquino (di cui il nostro paese faceva
parte) furono tassate per l’erezione del seminario. In tale occasione il
santuario fu esentato dal pagamento perché in costruzione. La data
d’ultimazione dei lavori potrebbe essere 1582 incisa sul portale. Della fine
del XVI secolo sono anche le raffigurazioni pittoriche note. In tutte
Sant’Eleuterio è riconoscibile dall’abito di pellegrino che indossa, dai due
cani alla catena e dal groviglio di serpenti ai suoi piedi: motivi questi che
caratterizzano tutte le altre immagini fino ai giorni nostri. Il documento iconografico
più antico è databile intorno al 1590 riguarda un’opera attribuita a Marco
Mazzaroppi ed è visibile in copia nel santuario; di un decennio successivo è il
dipinto custodito a Ferentino nella chiesa extra moenia di S. Maria
delle Grazie più nota come San Rocco; la terza tela è quella posta sull’altare
dedicato al Santo nella chiesa parrocchiale, essa risale alla prima metà del
XVIII secolo. In entrambe le tele arcesi si nota, alle spalle del Santo, un
paesaggio nel quale emergono elementi architettonici effettivamente presenti
nell’area del santuario. Se nella prima è visibile un nucleo abitato,
nell’altra sono ben evidenti i luoghi canonici del Santo: il ponte sul Liri e
la torre di Campolato. Quest’ultima ben visibile in un foglio devozionale della
fine del XVII secolo. Attualmente sono note tre statue del Santo: una lignea risalente al 1830 circa, conservata nella cattedrale
di Aquino; due in cartapesta rispettivamente custodite presso il santuario e la
parrocchiale di Arce.
Altre due icone che rappresentano il Santo si trovano nella chiesa
parrocchiale di Arce, infatti, ai lati dell’altare del Sacro Cuore vi sono due
stucchi a rilievo, il primo a sinistra si suppone rappresenti l’arrivo di S.
Eleuterio a Gerusalemme, è ben visibile la mezza luna, simbolo dell’ISLAM, una
torre alle spalle, la sua casa, il mare e le mura della città Santa, il secondo
a destra la sua morte, qui si vede il nostro Santo accolto dagli angeli in
paradiso.
La devozione
per S. Eleuterio è rivolta essenzialmente alla protezione e alla guarigione dai
morsi di cani e di serpenti. Intorno alla sua figura taumaturgica, proprio
perché relativamente «recente» sono confluiti non soltanto rituali e usanze ma
anche espressioni e modi di dire già presenti per altri Santi con analogo patronato
ma di più antica venerazione. Comunque a tutte le leggende è comune la
circostanza del rinvenimento del cilicio in ferro indosso al pellegrino. Fuso
in epoca imprecisata, se ne ricavarono due chiavi: una rivestita d’argento,
rimase ad Arce, l’altra fu destinata alla sede vescovile d’Aquino, in seguito
vedremo l’esistenza di altre chiavi non citate nella tradizione arcese ma
comunque riferite al culto del nostro S. Eleuterio.
Per quanto
riguarda i modi di dire legati al Santo ne riportiamo alcuni dei più comuni: «N’n
vid’ la serpa e ‘nvoche Sant’ Lautèrie» si usa rivolgendosi a chi si
spaventa prima di un pericolo reale mentre «Và a bacia la chiav’ d’ Sant’
Lautèrie» si usa con chiunque dimostri una fame «arrabiata».
Le
reliquie del santo sono conservate in un'urna sotto l'altare a lui dedicato
nella chiesa parrocchiale dei Santi Apostoli Pietro e Paolo di Arce.
La memoria liturgica
ricorre il 29 maggio, quando la statua del Santo Patrono, insieme a quella di
santa Rita, viene portata in solenne processione per le vie del centro storico
del comune.
Per tale occasione, la
domenica successiva al 5 maggio, giorno che la popolazione arcese dedica al
digiuno, le statue di sant'Eleuterio e di santa Rita da Cascia vengono traslate
in solenne processione, in un tripudio di canti e fuochi d'artificio, lungo un
percorso di quattro chilometri, dal Santuario dedicato al Santo alla Chiesa
parrocchiale dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Qui restano sino alla metà di
giugno, quando sempre in solenne processione, vengono riportate nel Santuario.
Altra festività legata al
santo è il 3 agosto; qui i festeggiamenti si svolgono nel Santuario, situato in località sant'Eleuterio.
La
chiesa-santuario è dedicata a Sant’Eleuterio Pellegrino
e Confessore, Patrono della città; essa si trova quasi al confine con Fontana
Liri nei pressi della torre detta “del Pedaggio” o di “S. Eleuterio". La
costruzione attuale risulta molto modificata da quella che doveva essere la
costruzione originaria, si noti infatti nella parte posteriore dell’edificio la
torre campanaria, a forma quadrangolare, più simile ad una torre di difesa che
ad una campanaria.
Le prime notizie
dell’esistenza di questa chiesa le troviamo già a partire dal 1574, allorché
veniva costruito il seminario vescovile di Aquino, questa chiesa non venne
sottoposta ad alcuna tassazione perché si trovava in costruzione. Notizie
successive ci fanno sapere di una controversia tra l’Università di Arce (ovvero
l’allora Comune) ed il clero della Parrocchia di San Pietro (l’attuale SS. AA.
Pietro e Paolo), entrambi sostenevano di essere i proprietari dell’edificio e
dei beni legati alla chiesa; notizia certa è comunque che nel 1603 essa
apparteneva all’Università.
Una testimonianza ben
precisa sull’importanza del culto di questo Santo l’apprendiamo nel libro “Il
Ceprano ravvivato”, quando l’autore descrivendo il corso del fiume Liri
arrivato ad Arce afferma: “…… e di Capo
Lato, hoggi di S. Eleuterio Heremita, per la vicinanza di un suo Tempio
notabile non meno per la sua deuozione, che per la ricchezza, e abondanza de
voti; che si fa ammirare da tutti li riguardanti, oltre che pre risiedervi il
suo benedetto corpo sotto dell’altare maggiore, apre la strada ad ogni nazione
di concorrervi; li cittadini naturali di Arce, e le speranze, e se vogliamo
rapportare il vero, non so se vi fù mai tepio maggiore à quello per la
diuotione ……”; questa descrizione ci fa comprendere quale importanza abbia
avuto questo santuario nel corso degli anni.
Nel ‘900 la chiesa ha
subito l’ultimo restauro ed è stata ampliata la casa canonica.
La chiesa ha tre navate
di cui una maggiore centrale e due più piccole laterali, la struttura statica
dell’edificio è buona, come detto questa chiesa è dedicata la Protettore della
città, infatti, nel presbiterio è esposta una copia fotografica della tela
raffigurante il Santo opera del pittore cassinate Marco Marzaroppi .
Come detto la chiesa ha
due navate minori, al termine delle stesse vi sono due piccoli altari non più
utilizzati i quali hanno come pala degli affreschi su quello di destra è
raffigurato San Rocco, comprotettore della città, su quello di sinistra è
raffigurata la Madonna del Carmine e San Giuseppe.
La chiesa originariamente aveva 10 grandi finestre ma nei restauri del 1982 due di esse furono richiuse per così diventare le nicchie dove vengono conservate le statue di Sant’Eleuterio e Santa Rita da Cascia. Di recente sono state istallate delle vetrate artistiche nelle finestre sopra la porta, raffigurante la Santissima Trinità ed una nella finestra dell’abside raffigurante lo Spirito Santo. Quest’anno (1998) sono state sostituite le finestre della chiesa con delle vetrate istoriate che raffigurano i misteri principali della Redenzione.
La parte più interessante
dell’intero edificio è comunque l’abside in quanto il materiale usato per
costruire sia la mensa sia il leggio sono dei reperti archeologici di epoca
romana rinvenuti nei pressi della chiesa. Nell’abside come in sacrestia sono
ben visibile resti di affreschi della chiesa originaria, sono databili intorno
al XIII – XIV secolo. Concludendo nell’abside, durante i lavori di
pavimentazione è stata trovata una piccola nicchia in pietra, oggi visibile
attraverso una grata, che doveva contenere i resti mortali di Sant’Eleuterio.
Festa 3 agosto 2020 |
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