Dal Martirologio Romano alla data del 10 febbraio: “A Rimini, beata Chiara, vedova, che espiò con la penitenza, la mortificazione della carne e i digiuni la precedente vita dissoluta e, radunate delle compagne in un monastero, servì il Signore in spirito di umiltà.”
«Femina so’ e peccatrice». Da questa immagine negativa del femminile riconosciuta e confessata muove,
all’interno dei recessi più profondi dell’anima e tra le mura di una città
medievale tra Due e Trecento, il viaggio di Chiara da Rimini verso la santità.
Ma chi è
Chiara? La leggenda agiografica che ne racconta la vita è tramandata da un
manoscritto in volgare italiano, venato di forme dialettali romagnole, del
tardo secolo XV, tuttora conservato a Rimini: leggenda scandagliata nelle
pieghe più sottili da Jacques Dalarun in un libro dalla forza narrativa
catturante, Santa e ribelle, che smonta e rimonta tempi, spazi, eventi
dell’itinerario terreno della santa. Nel contempo, due convegni sui santi, a
Spoleto e a Firenze, fanno da più largo contesto al libro di Dalarun, e
mostrano l’interesse attuale per l’agiografia (vicende, miracoli, traslazioni
di reliquie di santi), i cui meccanismi costituiscono un campo di indagine
storiografica di prim’ordine.
Chiara nasce
poco oltre la metà del Duecento, secolo che con le sue proiezioni nel Trecento
vede nel triangolo tra Toscana, Romagna e Umbria la santità femminile anche di
Margherita da Cortona, Angela da Foligno, Chiara da Montefalco, cui seguirà la
più grande delle mistiche, Caterina da Siena. Sullo sfondo s’irradiano i
bagliori di Francesco d’Assisi. Quello di Chiara da Rimini è il percorso della
mondana pentita. La leggenda la colloca nella sfera alta della società
riminese; circostanza sospetta, introdotta forse al fine di accrescerne i
meriti quando si spoglierà dei suoi beni. Dotata di «excessiva bellezza del
corpo» non meno che «di ogni lascivia piena», s’infiamma per il
denaro come per il sesso, si immerge nella vanità del lusso, gode di ogni «ghioctitudine»
della tavola, si abbandona ai «mali desideri». Data in sposa assai
giovane dal padre ad un uomo non scelto, all’età di ventiquattro anni ha già
perso – per morte naturale o per vicende violente – madre, matrigna, padre,
fratello, marito; ma i sensi la gettano verso un secondo «carnal marito». Il solco è in qualche modo simile a quello di
Margherita da Cortona che vive nove anni in concubinaggio con un ricco
debosciato, o di Angela da Foligno che conduce una vita ebbra e dissoluta.
Donne come queste, sposate e comunque non vergini, non sono votate alla
santità. Non aveva forse detto Pier Damiani che il solo limite all’onnipotenza
di Dio era che non poteva ridonare la verginità perduta? Ma queste donne, tra
una femminilità vissuta nella carne e offerta all’uomo, e una femminilità
negata in sé e offerta a Dio, scelgono una terza via, quella di una
«conversione» dall’una all’altra.
Chiara è
attirata, come da un amante, nella chiesa di San Francesco di Rimini. Entra. Vi
ritorna. E quasi «novo pensiere et corpo avesse preso» riconosce «i
soi passati errori». Si separa dal marito, che presto muore. Libera, si
unisce al suo terzo sposo, Cristo. È «facta religiosa», e la sua vita si
capovolge. I travagli sono molti. Alla fine Chiara si insedia in una stanza
tutta per sé, alla quale da lungo tempo anelava, una celletta nelle mura della
città antica: non a caso, giacché le mura stanno a significare una zona di
confine, quasi riflesso della linea che separa il terreno dal celeste.
Penitente, porta il cilicio fatto di pelle di maiale rivoltata dal lato delle
setole, in modo che più crudeli ne risultino i colpi sulla carne peccatrice.
Punisce la sua «ghioctitudine» rinunciando a gustosi pollastri e ad
altri «delectevoli animali in lesso o arosto», e mangia il rospo, la
bestia schifosa, nella quale il Medioevo simbolicamente combina l’orrore per il
cibo e l’orrore per il sesso. Nelle strade e nelle piazze cittadine Chiara «urla
como lupo e ciufola como serpente» le sue colpe facendosi battere da due
aguzzini prezzolati, quasi reiterando la passione di Cristo tra i ladroni nella
sofferenza del corpo martoriato. Novello apostolo, predica, svergogna i
peccati, e converte. Chiede l’elemosina di uscio in uscio e ne distribuisce il
ricavato ai poveri.
L’amore di Dio
spinto al rigore estremo dello spirito e all’umiliazione lacerante della carne,
sfacciatamente esibito, può diventare scandalo. Le sante italiane dei secoli
XIII e XIV possedute dalla smania di espiazione e ululanti un passato
scellerato sembrano talora rimandare ai santi folli del mondo greco-orientale.
Angela da Foligno, in piena quaresima pasquale, sogna di girare nuda per le
piazze, con un rosario di pesci e carni al collo, per gridare in faccia alla
gente i suoi appetiti e le sue malizie. Rinsecchita dai digiuni, macerata nel
corpo, la bocca scheletrita, pallida, scalza, ossessionata dalla passione della
croce, Chiara da Rimini cammina sull’ambiguo rasoio che passa tra folle amore
di Dio ed eresia. Supera la prova. Ispirata dalla percezione sensibile, oculare,
delle immagini sacre si accende di visioni dell’anima. Compie miracoli, con i
quali il Signore le manifesta il suo favore. Fonda una comunità femminile. Ha
il riconoscimento delle gerarchie ecclesiastiche. E intorno agli anni Venti del
Trecento trova al suo capezzale l’agiografo che narra la sua vita, il
tempestoso viaggio verso la santità che le si dischiude.
Scrive Dalarun:
«L’agiografia è un palazzo di specchi in cui errano e si sfiorano esseri
allucinati, cercando di vedere, al di là del gioco di riflessi, il volto
accecante dell’eterno». Ma lo storico vede anche oltre quel «palazzo di
specchi». Smontare i meccanismi dell’agiografia significa svelare le strategie
che hanno governato la santità. Non conta solo la verità storica dei fatti
narrati, tante volte confusa, sgranata e aleatoria, o isolare singole notizie
verificabili all’interno della leggenda. Esiste una veridicità agiografica, la
quale si trova all’incrocio di dinamiche sociali, religiose, spirituali, e che
riverbera mentalità, modelli di comportamento, pratiche culturali, sistemi di
rappresentazione, forme di immaginario individuale o collettivo. Promozione e
riconoscimento della santità, nascita di culti, varianti e definizioni della
iconografia o della liturgia di un santo rinviano a dimensioni o fattori che
possono essere di volta in volta politici, istituzionali, economici oltre che
religiosi e spirituali. Chiara non occupa da sola l’intera scena riminese.
Nella città, stabilmente o di passaggio, agiscono ceti dirigenti, fazioni politiche,
movimenti spirituali, gruppi in odore di eresia, comunità conventuali, poteri
ecclesiastici, erudizione locale. Tutto sullo sfondo di una gremita, animata e
vociante vita quotidiana. Microcosmo corale del tardo Medioevo, Rimini diventa
così palcoscenico sul quale, smontata nei suoi meccanismi, la leggenda di
Chiara recita la storia.
FONTE:
Chiesa di Corpolò
Jacques
Dalarun, Santa e ribelle. Vita di Chiara da Rimini, Laterza 2000.
Il Corriere
della Sera, 24/10/2000