domenica 10 febbraio 2019

Beata Cera: Chiara da Rimini



Dal Martirologio Romano alla data del 10 febbraio: “A Rimini, beata Chiara, vedova, che espiò con la penitenza, la mortificazione della carne e i digiuni la precedente vita dissoluta e, radunate delle compagne in un monastero, servì il Signore in spirito di umiltà.”

«Femina so’ e peccatrice». Da questa immagine negativa del femminile riconosciuta e confessata muove, all’interno dei recessi più profondi dell’anima e tra le mura di una città medievale tra Due e Trecento, il viaggio di Chiara da Rimini verso la santità.

Ma chi è Chiara? La leggenda agiografica che ne racconta la vita è tramandata da un manoscritto in volgare italiano, venato di forme dialettali romagnole, del tardo secolo XV, tuttora conservato a Rimini: leggenda scandagliata nelle pieghe più sottili da Jacques Dalarun in un libro dalla forza narrativa catturante, Santa e ribelle, che smonta e rimonta tempi, spazi, eventi dell’itinerario terreno della santa. Nel contempo, due convegni sui santi, a Spoleto e a Firenze, fanno da più largo contesto al libro di Dalarun, e mostrano l’interesse attuale per l’agiografia (vicende, miracoli, traslazioni di reliquie di santi), i cui meccanismi costituiscono un campo di indagine storiografica di prim’ordine.

Chiara nasce poco oltre la metà del Duecento, secolo che con le sue proiezioni nel Trecento vede nel triangolo tra Toscana, Romagna e Umbria la santità femminile anche di Margherita da Cortona, Angela da Foligno, Chiara da Montefalco, cui seguirà la più grande delle mistiche, Caterina da Siena. Sullo sfondo s’irradiano i bagliori di Francesco d’Assisi. Quello di Chiara da Rimini è il percorso della mondana pentita. La leggenda la colloca nella sfera alta della società riminese; circostanza sospetta, introdotta forse al fine di accrescerne i meriti quando si spoglierà dei suoi beni. Dotata di «excessiva bellezza del corpo» non meno che «di ogni lascivia piena», s’infiamma per il denaro come per il sesso, si immerge nella vanità del lusso, gode di ogni «ghioctitudine» della tavola, si abbandona ai «mali desideri». Data in sposa assai giovane dal padre ad un uomo non scelto, all’età di ventiquattro anni ha già perso – per morte naturale o per vicende violente – madre, matrigna, padre, fratello, marito; ma i sensi la gettano verso un secondo «carnal marito». Il solco è in qualche modo simile a quello di Margherita da Cortona che vive nove anni in concubinaggio con un ricco debosciato, o di Angela da Foligno che conduce una vita ebbra e dissoluta. Donne come queste, sposate e comunque non vergini, non sono votate alla santità. Non aveva forse detto Pier Damiani che il solo limite all’onnipotenza di Dio era che non poteva ridonare la verginità perduta? Ma queste donne, tra una femminilità vissuta nella carne e offerta all’uomo, e una femminilità negata in sé e offerta a Dio, scelgono una terza via, quella di una «conversione» dall’una all’altra.

Chiara è attirata, come da un amante, nella chiesa di San Francesco di Rimini. Entra. Vi ritorna. E quasi «novo pensiere et corpo avesse preso» riconosce «i soi passati errori». Si separa dal marito, che presto muore. Libera, si unisce al suo terzo sposo, Cristo. È «facta religiosa», e la sua vita si capovolge. I travagli sono molti. Alla fine Chiara si insedia in una stanza tutta per sé, alla quale da lungo tempo anelava, una celletta nelle mura della città antica: non a caso, giacché le mura stanno a significare una zona di confine, quasi riflesso della linea che separa il terreno dal celeste. Penitente, porta il cilicio fatto di pelle di maiale rivoltata dal lato delle setole, in modo che più crudeli ne risultino i colpi sulla carne peccatrice. Punisce la sua «ghioctitudine» rinunciando a gustosi pollastri e ad altri «delectevoli animali in lesso o arosto», e mangia il rospo, la bestia schifosa, nella quale il Medioevo simbolicamente combina l’orrore per il cibo e l’orrore per il sesso. Nelle strade e nelle piazze cittadine Chiara «urla como lupo e ciufola como serpente» le sue colpe facendosi battere da due aguzzini prezzolati, quasi reiterando la passione di Cristo tra i ladroni nella sofferenza del corpo martoriato. Novello apostolo, predica, svergogna i peccati, e converte. Chiede l’elemosina di uscio in uscio e ne distribuisce il ricavato ai poveri.

L’amore di Dio spinto al rigore estremo dello spirito e all’umiliazione lacerante della carne, sfacciatamente esibito, può diventare scandalo. Le sante italiane dei secoli XIII e XIV possedute dalla smania di espiazione e ululanti un passato scellerato sembrano talora rimandare ai santi folli del mondo greco-orientale. Angela da Foligno, in piena quaresima pasquale, sogna di girare nuda per le piazze, con un rosario di pesci e carni al collo, per gridare in faccia alla gente i suoi appetiti e le sue malizie. Rinsecchita dai digiuni, macerata nel corpo, la bocca scheletrita, pallida, scalza, ossessionata dalla passione della croce, Chiara da Rimini cammina sull’ambiguo rasoio che passa tra folle amore di Dio ed eresia. Supera la prova. Ispirata dalla percezione sensibile, oculare, delle immagini sacre si accende di visioni dell’anima. Compie miracoli, con i quali il Signore le manifesta il suo favore. Fonda una comunità femminile. Ha il riconoscimento delle gerarchie ecclesiastiche. E intorno agli anni Venti del Trecento trova al suo capezzale l’agiografo che narra la sua vita, il tempestoso viaggio verso la santità che le si dischiude.

Scrive Dalarun: «L’agiografia è un palazzo di specchi in cui errano e si sfiorano esseri allucinati, cercando di vedere, al di là del gioco di riflessi, il volto accecante dell’eterno». Ma lo storico vede anche oltre quel «palazzo di specchi». Smontare i meccanismi dell’agiografia significa svelare le strategie che hanno governato la santità. Non conta solo la verità storica dei fatti narrati, tante volte confusa, sgranata e aleatoria, o isolare singole notizie verificabili all’interno della leggenda. Esiste una veridicità agiografica, la quale si trova all’incrocio di dinamiche sociali, religiose, spirituali, e che riverbera mentalità, modelli di comportamento, pratiche culturali, sistemi di rappresentazione, forme di immaginario individuale o collettivo. Promozione e riconoscimento della santità, nascita di culti, varianti e definizioni della iconografia o della liturgia di un santo rinviano a dimensioni o fattori che possono essere di volta in volta politici, istituzionali, economici oltre che religiosi e spirituali. Chiara non occupa da sola l’intera scena riminese. Nella città, stabilmente o di passaggio, agiscono ceti dirigenti, fazioni politiche, movimenti spirituali, gruppi in odore di eresia, comunità conventuali, poteri ecclesiastici, erudizione locale. Tutto sullo sfondo di una gremita, animata e vociante vita quotidiana. Microcosmo corale del tardo Medioevo, Rimini diventa così palcoscenico sul quale, smontata nei suoi meccanismi, la leggenda di Chiara recita la storia.

 

FONTE:

Chiesa di Corpolò

Jacques Dalarun, Santa e ribelle. Vita di Chiara da Rimini, Laterza 2000.

Il Corriere della Sera, 24/10/2000