A noi oggi fa impressione pensare che un vescovo potesse passare tutta la vita lontano dalla sua diocesi: ma questa purtroppo era spesso la norma prima della riforma promossa dal concilio di Trento. A Milano per esempio, prima di san Carlo, per almeno cinquant’anni gli arcivescovi furono sempre assenti, accontentandosi di delegare la cura pastorale ai propri vicari. Ebbene, san Carlo cominciò proprio da questo punto a stravolgere l’immagine del vescovo rinascimentale, riproponendo in maniera esemplare quella del vescovo-pastore, il quale “risiede” stabilmente nella sua diocesi, non tanto nel senso banale che vi abita, ma nel senso che vive in mezzo al suo popolo, ne condivide le condizioni di vita, i problemi, le ansie, anche i momenti di dramma, come durante la terribile peste del 1576. San Carlo era convinto che il vescovo, per la sua diocesi, fosse come lo sposo per la propria sposa: ogni assenza ingiustificata, ogni diserzione dal proprio ministero, era come un tradimento nei confronti dei fedeli affidati alle sue cure, come un “adulterio”. Il vescovo dunque in mezzo al suo popolo, pronto, come il Buon Pastore, a dare la vita per le sue pecore.
(di mons. Marco Navoni)
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