«Se
sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire:
se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli
Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il
Signore».
Così parla Giosuè, il successore
di Mosè alla guida del popolo d’Israele.
Egli pone al popolo una
decisione. Chiede di scegliere una misura per la vita di se e dei loro figli.
Chiede di accogliere, di
darsi un patto di fiducia.
In un mondo sfiduciato,
siamo anche dentro questa domanda: se fare nostro il patto di Sichem.
Facciamo nostra la
risposta di Israele?
«Lontano
da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore,
nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto,
dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri
occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a
tutti i popoli fra i quali siamo passati. Perciò anche noi serviremo il
Signore, perché egli è il nostro Dio».
Questo problema di decisone riappare nel Vangelo in
cui si dice:
Da
quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con
lui.
La questione è grande e grave.
Come per Sichem, anche nel Vangelo siamo scossi e
chiamati ad una decisone seria e definitiva: con il Signore o senza il Signore.
Disse
allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?».
Certo noi siamo più ambigui. Noi rimaniamo, stiamo, ma
poi in realtà camminiamo come vogliamo.
Questa ambiguità fa male!
Sentiamo nostra la domanda e il grido di Pietro:
«Signore,
da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto
che tu sei il Santo di Dio».
Ora passiamo alla seconda
lettura. Che cosa ci dice alla luce delle altre due.
La famosa lettera di
Paolo, sul rapporto uomo e donna, meglio sul rapporto marito e moglie, ci
riporta al concretezza della vita.
La scelta del Signore
nella nostra vita deve entrare nella dimensione del quotidiano.
La misura è: come anche Cristo fa
Non basta scegliere,
bisognare essere.
Non possiamo dirci
cristiani, dobbiamo essere cristiani.
Mi piace a tal proposito riprendere
la catechesi del Papa sulla tema della festa, dello scorso 12 agosto:
Oggi
parleremo della festa. E diciamo subito che la festa è un’invenzione di Dio.
Ricordiamo la conclusione del racconto della creazione…
Dio
stesso ci insegna l’importanza di dedicare un tempo a contemplare e a godere di
ciò che nel lavoro è stato ben fatto. Parlo di lavoro, naturalmente, non solo
nel senso del mestiere e della professione, ma nel senso più ampio: ogni azione
con cui noi uomini e donne possiamo collaborare all’opera creatrice di Dio.
Dunque
la festa non è la pigrizia di starsene in poltrona, o l’ebbrezza di una sciocca
evasione, no, la festa è anzitutto uno sguardo amorevole e grato sul lavoro ben
fatto; festeggiamo un lavoro.
Può
capitare che una festa arrivi in circostanze difficili o dolorose, e si celebra
magari “con il groppo in gola”. Eppure, anche in questi casi, chiediamo a Dio
la forza di non svuotarla completamente.
Ma
il vero tempo della festa sospende il lavoro professionale, ed è sacro, perché
ricorda all’uomo e alla donna che sono fatti ad immagine di Dio, il quale non è
schiavo del lavoro, ma Signore, e dunque anche noi non dobbiamo mai essere
schiavi del lavoro, ma “signori”.
L’ossessione
del profitto economico e l’efficientismo della tecnica mettono a rischio i
ritmi umani della vita, perché la vita ha i suoi ritmi umani. Il tempo del
riposo, soprattutto quello domenicale, è destinato a noi perché possiamo godere
di ciò che non si produce e non si consuma, non si compra e non si vende. E
invece vediamo che l’ideologia del profitto e del consumo vuole mangiarsi anche
la festa: anch’essa a volte viene ridotta a un “affare”, a un modo per fare
soldi e per spenderli. Ma è per questo che lavoriamo? L’ingordigia del
consumare, che comporta lo spreco, è un brutto virus che, tra l’altro, ci fa
ritrovare alla fine più stanchi di prima. Nuoce al lavoro vero, e consuma la
vita. I ritmi sregolati della festa fanno vittime, spesso giovani.
Infine,
il tempo della festa è sacro perché Dio lo abita in un modo speciale.
L’Eucaristia domenicale porta alla festa tutta la grazia di Gesù Cristo: la sua
presenza, il suo amore, il suo sacrificio, il suo farci comunità, il suo stare
con noi… E così ogni realtà riceve il suo senso pieno: il lavoro, la famiglia,
le gioie e le fatiche di ogni giorno, anche la sofferenza e la morte; tutto
viene trasfigurato dalla grazia di Cristo.
Ecco qui, in questa
catechesi la concretezza del patto di Sichem: Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore.
Amen.
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