L’odierna domenica ci offre attraverso la Parola di Dio ascoltata molti suggerimenti di riflessione: ma credo che la riflessione trasversale tra le letture sia la consapevolezza della debolezza e fragilità del nostro ESSERE discepoli a confronto della GRANDEZZA del messaggio cristiano, in cui noi siamo esortati a ricordarci che non ci possiamo adagiare e non possiamo contare solo su noi stessi, ma ci dobbiamo rendere conto che tutto parte dalla Grazia, Gesù dice all’apostolo Paolo: “Ti basta la mia grazia”.
È lo stesso motto episcopale del nostro Arcivescovo e Cardinale Angelo Scola: «Sufficit gratia tua» («Basta la Tua grazia»).
Custodiamo allora la GRAZIA di Dio, da essa parte tutto.
È l’antico motto dei nostri padri, che diceva: “Sta’ cunfessà” (sii sempre confessato!), cioè affonda le tue radici nella sua Grazia.
Ma andiamo oltre.
1. Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».
La prima lettura, richiamandoci la pagina evangelica di Gesù a Nazareth, ci vuole ricordare Cristo è sempre in mezzo a noi, forse non sempre noi siamo intorno a lui, dietro a lui. Abbiamo la presunzione di dire, so già tutto, sono già arrivato, perché mi devo confessare … e così via!
Non dicevano gli abitanti di Nazareth:
«Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?».
Avendo così la presunzione di conoscerlo?
Questo frammento evangelico ci fa fare due altre riflessioni:
2. La fatica di essere profeta del Signore nel quotidiano. Diciamolo in un altro modo: essere cristiano in casa, sul lavoro e con i figli o nipoti. Allora è spontanea una domanda: : ma la fede può essere «trasmessa»?
Se la fede, come recita il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), è un atto personale («è la libera risposta dell'uomo all'iniziativa di Dio, che si rivela», n. 166), questa decisione non può essere «trasmessa». Facciamo un esempio. La fede di Abramo è il suo personale atto di obbedienza alla Parola di Dio, questo atto è solo suo. Può essere indicato come esempio, ma per essere trasmesso deve essere ripetuto da altri, che facciano propria la medesima obbedienza a Dio.
Tuttavia – come sappiamo bene – non c'è solo questo aspetto soggettivo e personale della fede: c'è anche un aspetto oggettivo, fatto di contenuti (enunciati, riti, comportamenti), che sono oggetto, appunto, di insegnamento, e che quindi possono essere trasmessi. Tutto questo ci permette «di esprimere e di trasmettere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla, e di viverne sempre più intensamente» (CCC, n. 170).
Dobbiamo essere soggetti che custodisco e vivono l’oggettività del credere; solo allora la fede sarà trasmessa.
3. il Vangelo odierno ci racconta:
“Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone?”
Cosa significa tutto ciò?
È un argomento interessante ed intricato che meriterebbe un lunga trattazione. Cerchiamo di essere sintetici.
L’interpretazione del termine adelfòi di Gesù, cioè fratelli, ha tre plausibili risposte:
• cugini o parenti; cioè legati alla tradizione del triplice vedovanza e matrimonio di Anna, la madre di Maria, una matriarca con una famiglia molto grande e vivace.
• fratellastri, cioè figli di Giuseppe con una prima moglie di cui sarebbe rimasto vedovo prima di risposarsi con Maria;
• collaboratori nel ministero apostolico
Certamente come ben si capisce dal testo comparato con altre pagine del Vangelo, non sono figli di Maria di Nazaret.
Infine:
4. Scrive l’Apostolo Paolo:
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.
La Parola di Dio ci rivela la strada della sequela a Cristo: la via dell’apparente debolezza perché si sveli la vera grandezza.
Il coraggio non è spavalderia, oppure bullismo, oppure prepotenza.
Dice Gesù nel Vangelo: «… bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco».
Il coraggio è la virtù della fortezza che “mostra” il primato di Dio. “Io amo il Padre”, cioè amo compiere la volontà del Padre, questa può apparire come debolezza, ma è la mia gioia e la mia forza.
Amen.
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