domenica 27 ottobre 2013

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)







“Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”. (2 Tm 4, 6-8)

Guardiamo la vicenda di Paolo.
Ora la sua vita è al termine.
Egli ha una buona considerazione di sé.
Ha combattuto la battaglia, ha fatto il suo cammino fino in fondo, in sincerità e profondità, ed ha conservato la fede: l’ha custodita a costo della sua stessa vita.

Afferma il Concilio Vaticano II nella costituzione pastorale Gaudium et Spes:
“Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall'origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all'ultimo giorno.
Inserito in questa battaglia, l'uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l'aiuto della grazia di Dio”. (GS 37)

Chissà quanto contemplazione, quanta preghiera ha vissuto l’Apostolo Paolo per vivere fino in fondo la sua vocazione (chiamata!), nel suo compito: seminare e rimanere unito al bene ... Gesù!

Una vita di preghiera, quella di Paolo, che doveva liberarlo da ogni presunzione di essere giusto ed avere una buona coscienza di se: liberarsi dal fariseo che lo abitava per abbracciare l’umiltà del pubblicano.

“Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all'età di otto giorni, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della Legge, irreprensibile.
Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo”. (Fil 3)
L’umiltà del pubblicano è la strada per vivere una preghiera feconda.

Come vivo la mia preghiera?

Il fariseo del racconto lucano appare colui che intesse con Dio un dialogo dove il centro è egli stesso. La preghiera non è specchio per la sua anima, nutrimento per seguire Gesù e forza per vivere la battaglia del bene.

Egli si confronta sulle malefatte altrui, non tanto guarda se, se nella sua vita la risplende la santità di Dio! Egli basta a se stesso!
Una preghiera così fatta non fa crescere!

“O Dio, abbi pietà di me peccatore”. La preghiera del pubblicano è invece essenziale, ma va all’essenza: di sé e di Dio.
Dio è colui che ha misericordia ed egli ha bisognoso di questa misericordia perché la sua vita non risponde sempre con fedeltà all’amore alla cui pienezza è destinata!

Stando al fariseo. Non basta non fare questo o quello (non rubo, non uccido, non bestemmio!), bisogna rispondere con generosità all’Amore.

Quindi “pregare sempre, senza stancarsi mai”, finché “attraversa le nubi … finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità”, ma anche pregare perché la vita di ciascuno partecipi nel generare il Cielo sulla terra, una preghiera che porti la giustizia di Dio.

Solo un uomo umile e semplice, può mettersi al servizio del Signore "per realizzare sempre il più: il più perfetto, il più grande, il più gradito agli occhi di Dio". (S. Ignazio di Loyola)
 
Il farisero si sente lui "il più".
Viviamo allora una preghiera come incontro con il divino così che come il Santo vescovo di Antiochia, Ignazio, possiamo dire:
“Conservate il vostro battesimo come scudo, la fede come elmo, l’amore come lancia, la pazienza come armatura”. (Lettera a Policarpo). Amen.

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