Ignazio
(“detto anche Teoforo”, così si chiama in tutte le sue lettere), vissuto ad
Antiochia di Siria sotto l’imperatore Traiano (98-117), fu il terzo vescovo
della comunità cristiana di Antiochia, dopo Simon Pietro ed Evodio. Di lui
narra Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica (III,36), ed è l’unica
fonte diretta che abbiamo della sua vita, insieme alle notizie che provengono
dalla Lettera di Policarpo ai Filippesi .
Arrestato
come cristiano durante una persecuzione romana del cristianesimo, ritenuto
“superstitio illicita”, negli anni tra il 107 e il 110 fu condannato ad essere
ucciso dalle bestie a Roma. Nel viaggio sotto scorta militare che, insieme ad
altri cristiani condannati, percorse per raggiungere il luogo dell’esecuzione,
fece anche lunghe soste.
A
Smirne venne accolto dal vescovo Policarpo e da una numerosa comunità di
cristiani. Accorrevano a incontrarlo anche membri di altre comunità dell’Asia
minore (Efeso, Magnesia, Tralli) che, non trovandosi sul percorso del suo
viaggio ultimo, vollero comunque accomiatarsi da un vescovo molto stimato e
amato. Da Smirne scrisse lettere di commiato alle Chiese di cui aveva accolto
la delegazione e alla Chiesa di Roma: questa è l’unica lettera datata, il
giorno 24 agosto. Dopo Smirne il drappello passò a Troade, da dove Ignazio
scrisse alle chiese di Filadelfia e di Smirne, e al suo vescovo Policarpo.
Successivamente dovette passare da Filippi, come testimonia la lettera scritta
posteriormente da Policarpo ai Filippesi, per imbarcarsi poi a Durazzo per
l’Italia. Ireneo (180 ca.) e Origene (235 ca.) testimoniano che effettivamente
subì il martirio, in Roma, consegnato alle fauci dei leoni.
Le
sette lettere scritte in questo viaggio infamante, in realtà trasformato da lui
in corteo trionfale, sono espresse in stile molto acceso e diretto e
testimoniano la tenera e vigorosa passione di questo umilissimo vescovo per il
Signore Gesù Cristo, e per l’unità delle chiese: “uomo fatto per l’unità” egli
si autodefinisce. Soprattutto la Lettera ai Romani rivela l’animo di questo
appassionato e mitissimo discepolo della prima generazione apostolica. Alla
fine del primo secolo di vita della Chiesa, tali lettere sono al tempo stesso
testimonianza preziosa sulla vita della più antica sede della Chiesa
apostolica, Antiochia; sulla fede cristologica ed ecclesiologia; sulle crisi
derivanti dagli influssi gnostici, giudaizzanti, docetisti; e sulla
spiritualità del martirio, strettamente collegata al senso dell’eucaristia.
Non
per niente Ignazio che, ritenendosi non ancora diventato veramente discepolo
(Ai Tralliani, V.2), anelava a “imitare la passione del suo Dio” (Ai Romani,
VI.3), si definiva “frumento di Dio”, destinato ad essere stritolato dalle
bestie per diventare pane puro di Cristo (Ai Romani, IV.1).
I
suoi resti sono, unitamente a quelli di S. Clemente I, nell’urna posta sotto
l’altare maggiore di S. Clemente Papa al Laterano. Dato in pasto alle fiere nel
107, le ossa furono raccolte dai fedeli che le trasportarono da Roma ad
Antiochia. Qui Teodosio II (408-450) gli dedicò il tempio già della Fortuna.
Con l’occupazione della città nel 637 da parte dei Saraceni, le reliquie furono
riportate a Roma e deposte a S. Clemente. In seguito furono distribuite in
varie chiese tra le quali S. Maria del Popolo e il SS. Nome di Gesù. In
quest’ultima veniva indicata fino al secolo scorso la reliquia della testa.